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mercoledì 22 agosto 2012

Una prateria in fondo al mare

Mai visto quelle grandi sterminate praterie sott'acqua? Basta una maschera e lo snorkel e a pochi metri dalla riva si possono cercare lì in mezzo tante varietà di pesce: seppie, polipi, crostacei e molluschi. Ma di cosa si tratta? Cos'è tutto quel verde? Di seguito riporto la sintesi di un capitolo di un libricino della Lega Navale Italiana (Ambiente marino e diporto sostenibile) dedicato appunto a questa incredibile pianta acquatica. 

La Posidonia Oceanica è una pianta marina che vive nel Mediterraneo con radici, fusto (rizoma), foglie e frutti, proprio come quelle terrestri. Nei mari italiani copre una superficie stimata di circa 20.000 miglia quadrate, praticamente lungo tutto le coste della penisola con l’eccezione del medio e alto Adriatico.
Le foglie sono la parte più visibile e riconoscibile, nastriformi, larghe circa 2 centimetri e in ciuffi di 6 o 7 elementi. Ogni foglia può arrivare a superare il metro di lunghezza.
Generalmente si insedia su fondali fangosi o sabbiosi e sopporta bene gli sbalzi termici dell’acqua. Ha bisogno di molta luce e per questo si sviluppa in acque limpide e ad una profondità non superiore ai 40 metri.
La loro presenza è importante per la conservazione dell’equilibrio nell’ambiente marino poichè le praterie di posidonie rallentano il fenomeno dell’erosione della costa (le fronde smorzano il moto ondoso e le correnti mentre i fusti trattengono grandi quantità di sedimento), costituiscono una sorta di polmone verde nel mare ossigenando l’acqua attraverso la fotosintesi clorofilliana e, infine, formano un habitat favorevole alla riproduzione di numerose specie ittiche e di altri organismi marini.
Purtroppo anche i posidonieti sono in sofferenza lungo tutta le coste del Mediterraneo, a causa soprattuttutto della costruzioni di nuovi porti e dighe - che alterano lo scorrimento delle correnti costiere-, di scarichi di acque non depurate - che provocano anche l’intorbidimento dell’acqua - e della pesca a strascico, che distrugge direttamente larghe porzioni di prateria.
Il diportista può fare poco per la salvaguardia della posidonia, ma ha il dovere di farlo: gli si chiede unicamente di non dare mai fondo lì dove essa è presente per evitare di danneggiarla con le marre dell’ancora.

Ora lo sapete. La prossima volta buttate l'ancora da qualche altra parte e tuffatevi ad ammirare la vita che scorre tra quei fili d'erba nel mare.

martedì 8 maggio 2012

Il porto con la spina

Oggi sono uscito in barca con un amico. E’ stata una bella giornata e abbiamo tenuto il motore acceso per non piu di 5 minuti in tutto, giusto il necessario per uscire e rientrare dall’ormeggio.

Per il resto siamo andati a vela per tutto il pomeriggio.

Una volta in banchina, ormeggiata la barca, ho preso dal gavone il cavo della 220v e lo ho collegato alla colonnina del pontile. Mentre mettevamo ordine in coperta non ho potuto fare a meno di guardare verso la Stazione Marittima, distante mezzo miglio, e notare il profilo imponente di due navi da crociera in attesa dei loro ospiti, con il camino in funzione che scaricava nel cielo quintali di fumi neri senza soluzione di continuità. Accanto due aliscafi vomitavano anch’essi macchie scure dai tubi di scarico.

Eppure non dovrebbe essere difficile mettergli la spina, proprio come l’abbiamo noi per la nostra piccola barca.

Se si riuscisse a spegnere il motore delle navi nei porti e ad alimentarle elettricamente si taglierebbero le immissioni di CO2 fino al 95 per cento.

Una soluzione del genere migliorerebbe la qualità dell’ambiente portuale di molto, contribuendo anche all’integrazione del porto con la città, perchè se è vero che gli scali sono fonte di occupazione e crescita economica è altrettanto vero che non sempre il prezzo da pagare è sostenibile dal punto di vista ambientale, basti pensare al peso della movimentazione di migliaia di automezzi che vanno all’imbarco in certi momenti dell’anno.

Il solo porto di Napoli, con circa un milione e mezzo di crocieristi in transito, registra la presenza costante in banchina di una nave al giorno in inverno e di almeno due nei mesi di alta stagione.

In questo scenario l’elettrificazione delle banchine dovrebbe collocarsi all’interno di un piano di riqualificazione energetica complessivo che, sfruttando risorse e tecnologie all’avanguardia , puntasse a trasformare l’intero porto, prima azienda della città, con migliaia di addetti nei settori della cantieristica, del traffico commerciale, del trasporto passeggeri e del diporto, in un’area più pulita e sicura.

Un tale piano dovrebbe prevedere un’ampia quota di autoproduzione di energia elettrica attraverso impianti fotovoltaici distribuiti sulle coperture degli edifici portuali, attraverso la costruzione di impianti eolici che potrebbero essere collocati sulla diga foranea, attraverso interventi di riqualificazione energetica negli edifici per contenere la dispersione termica e attraverso l’utilizzo di veicoli a propulsione elettrica o ibrida almeno all’interno del perimetro portuale.

Oltre agli ovvi benefici ambientali, sono evidenti anche i benefici economici sia nel settore dell’edilizia di qualità che in quello delle tecnologie ambientali.

Intanto, mentre scrivo, si è fatto buio. Le giornate si stanno allungando ma non abbastanza.

Vado a staccare la spina dalla colonnina.

La nave laggiù è tutta illuminata.

lunedì 23 gennaio 2012

Il Tirreno strapazzato (per tacer dello Ionio)

Durante il periodo delle vacanze di Natale, un po’ sottovoce, è arrivata la notizia di una nave, l’ Eurocargo Venezia della Grimaldi Lines, sorpresa da un forza 10 al largo di Livorno il 17 dicembre 2011. Le onde sono enormi su quei bassi fondali, arrivano a superare i dodici metri nel cavo, e così oltre 45 tonnellate di rifiuti tossici sono finiti in mare nelle acque del Santuario dei Cetacei, un’area marina che dovrebbe essere protetta e che invece in questi giorni sta dimostrando tutte le inefficienze dei sistemi di sorveglianza.
Si è trattato di un incidente talmente grave e stupido che il comandante non è stato in grado di definire con esattezza il materiale disperso e il punto in cui è avvenuto l’incidente ....


Nello stesso tratto di mare pochi giorni fa un'altra nave è stata condotta a 15 nodi contro gli scogli dell’isola del Giglio ed ora è lì, ferita a morte, immobile ed esposta al vento e alle onde. La Costa Concordia era appena partita e nei serbatoi ci sono ancora 2.400 tonnellate di carburante che rischiano di avvelenare una delle isole più belle che abbia mai visitato.
Anche questo è stato un incidente di una gravità inaudita, soprattutto per le tante vite umane che sono state spezzate, e ancora una volta le dichiarazioni del comandante ci lasciano frastornati e avviliti. Quello che finora emerge è una profonda mancanza di rispetto per il proprio dovere e, dispiace dirlo, la carenza di serrati controlli della Capitaneria nei confronti di questi grandi operatori.

C'è una anche buona notizia: il Consiglio dei Ministri, con il famoso decreto sulle liberalizzazioni, ha interrotto le prospezioni petrolifere nel Canale di Sicilia e al largo di Pantelleria di cui abbiamo parlato qualche mese fa. Resta alta l’incertezza sulla sorte delle medesime attività che si stanno svolgendo intorno alle Tremiti e che ultimamente Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia, denuncia con vigore in ogni possibile occasione. Confidiamo in un’analoga soluzione e non ci arrendiamo.
Dobbiamo insistere.
Ogni giorno.
Tutti i giorni

mercoledì 30 novembre 2011

Il mare non è sempre più blu


Il mare deve ogni giorno difendersi dalle aggressioni che da noi riceve e che ne turbano l'equilibrio e la capacità di autocura. Scarichi di ogni tipo, plastica abbandonata in acqua, navi cisterna che lavano le stive, superpetroliere che affondano, campi di trivellazione petrolifera e che stillano rifiuti di greggio senza soluzione di continuità, lo avvelenano e lo spopolano.
Il grido d’allarme è stato lanciato da più parti e si sta cominciando a delineare una strategia, sia pure del tutto empirica, che un qualche risultato potrebbe cominciare a produrlo.
Dall’Unione Europea è stata avanzata una proposta (inascoltata) di utilizzare nell’attività di decontaminazione e disinquinamento proprio gli stessi pescatori rimasti disoccupati per effetto della contrazione delle quantità di pescato disponibili.
Uno studio dell'anno scorso - già citato in questo blog (15 giugno) - ha reso noto che nelle acque del Mediterraneo si trovano 250mila milioni di piccoli frammenti di plastica e 500 tonnellate di materiali inquinanti disciolti tra le onde: questi dati sono di una tragicità assoluta per tutti i popoli che si affacciano sul nostro mare e ci devono spingere a reagire subito, vista la velocità con cui lo abbiamo danneggiato negli ultimi decenni.
Un progetto pilota affidato ai pescatori è partito in Francia e sarebbe auspicabile che altre nazioni mediterranee iniziassero a seguire la stessa strada. Anche in tempi di vacche magre.
I pescatori sono coloro che vivono quotidianamente il mare, ne hanno per cultura, per storia familiare, per tradizione una forma di rispetto e conoscenza che non si può insegnare e trasferire se non con il tempo e il legame atavico. Sono la categoria sociale ed economica più indicata per prendersene cura, per svolgere ora e nel futuro il ruolo di sentinella e curandero sia attraverso la collaborazione con gli organi dello Stato che attraverso l'autorganizzazione in cooperative che abbiano come attività collaterale anche la cura del mare.

Come si pulisce il mare

Una tecnologia interessante, e già utilizzata in più occasioni, viene dall’utilizzazione di “batteri mangiapetrolio”, microrganismi ghiotti di idrocarburi e capaci di digerirli. In effetti esistono diversi tipi di batteri con caratteristiche specifiche, in grado cioè di attaccare e decomporre uno o pochi tipi di molecole idrocarburiche.

Con tecniche biotecnologiche si è riusciti a trasferire ad un unico batterio la capacità di degradare tutti gli idrocarburi presenti nel petrolio rendendo così più veloce ed efficace il risanamento dell’ambiente sporcato da questi. Questa strategia di intervento fu messa a punto per la prima volta in occasione del famoso incidente della superpetroliera Exxon Valdez nel 1989 (ricordate, ad esempio, Waterworld con Kevin Costner?), e rimane uno dei sistemi ad oggi più utilizzati.
Un approccio completamente diverso è rappresentato dalla proposta di Francesco Stellacci del MIT di Boston, che ha realizzato una speciale carta assorbente capace di asciugare una quantità di liquido pari a venti volte il suo peso. La "carta" può essere riutilizzata più volte, basta strizzarla come si farebbe come con una qualsiasi pezza, e il petrolio che ne verrebbe fuori sarebbe riutilizzabile. La carta è fabbricata con l’utilizzo di nanotecnologie e assorbe solo petrolio, può essere lasciata in acqua per mesi senza assorbire neanche una goccia di acqua ed è estremamente economica da produrre.
Per estrarre il petrolio basta farlo evaporare esponendolo a forti fonti di calore e il foglio ritorna pronto per essere riutilizzato.
Sulla stessa linea, anche se meno tecnologica e più immediatamente applicabile, è una proposta che viene Biella e che si basa sul riutilizzo della lana grezza e di un sistema tecnologico denominato Wores. In buona sostanza si sfrutterebbero le naturali proprietà idrorepellenti della lana e la sua capacità di assorbire olii, e i vantaggi economici dei produttori di lana, perchè si tratterebbe dell’impiego di uno scarto di lavorazione con nessuna utilità. Il sistema Wores, la parte meccanica, potrebbe essere installato su navi di qualsiasi dimensione per spargere in mare la lana e poi recuperarla attraverso appositi scivoli. Una volta svolto il suo compito, strizzata con apposite presse, può essere riutilizzata per almeno dieci volte.
Al termine del suo ciclo la lana potrebbe essere smaltita nei termovalorizzatori che sfruttano le proprietà termiche del petrolio.
Per rimuovere i rifiuti solidi galleggianti si fa ricorso a speciali battelli attrezzati che vengono definiti spazzamare e solitamente sono in dotazione alle aree marine protette, ad alcuni comuni virtuosi e alle province.
Un battello spazzamare in genere ha una cesta a prua che una volta piena viene ribaltata nella stiva dove i rifiuti vengono differenziati e stoccati. Per essere efficace l’intervento di un simile mezzo deve essere quotidiano e per una durata di almeno 6 - 8 ore e nei luoghi indicati dagli esperti delle marine o dove appare maggiore la concentrazione di rifiuti galleggianti. E' di fondamentale importanza la collaborazione con le cooperative di pescatori o con i noleggiatori di imbarcazioni e la Capitaneria di Porto.

Meglio prevenire quando si può

Pulire il mare è difficile e costoso.
La cosa migliore da fare quindi è intervenire prima che l’inquinamento si verifichi, anzi, prima ancora che venga concepito, rendendolo economicamente poco conveniente prima ancora che inaccettabile dal punto di vista morale.
E allora occore intervenire con una produzione legislativa severa, che preveda sanzioni gravose per chi immetta sostanze inquinanti nelle acque pubbliche. Individuare i responsabili è abbastanza semplice: basta percorrere le coste e individuare gli scarichi e gli sversatoi criminali. A quel punto fare un prelievo e un’analisi delle sostanze versate in acqua è cosa semplice. I soldi delle sanzioni potrebbero poi essere utilizzati per potenziare la bonifica e i controlli delle acque pubbliche e del mare.
Naturalmente lungo le coste vanno realizzati anche gli impianti di depurazione, magari riuscendo a realizzare impianti differenziati a seconda che nel comprensorio ci siano aree industriali, per i quali sono necessari impianti in grado di dissolvere solventi organici, oli liberi ed emulsionanti che avendo un peso specifico più basso dell’acqua formano una pellicola sulla sua superficie impedendone l’ossigenazione, o aree ad alta concentrazione di popolazione e quindi impianti utilizzati soprattutto per la depurazione di escrementi (portatori di microrganismi patogeni quali tifo, colera ed epatite).
In genere l’acqua è in grado di depurarsi da sola, a condizione che la percentuale di ossigeno disciolto in acqua sia sufficiente per ossidare tutte le sostanze inquinanti presenti, altrimenti si formano prodotti come il metano, l’ammoniaca, l’acido solfidrico che fanno scomparire ogni forma di vita nell’acqua.
Pensare di risolvere il problema dell’inquinamento del mare con i depuratori non è diverso dal pensare di risolvere il problema dei rifiuti urbani attraverso i termovalorizzatori. E’ lo stesso tipo di approccio che sembra risolvere il problema mentre invece lo sposta soltanto.
Bisogna risalire più a monte nella catena produttiva.
Ma questa è una storia che va raccontata un passo alla volta.

giovedì 20 ottobre 2011

Il Guerriero dell'Arcobaleno


La nascita del nome
Bob Hunter, uno dei fondatori di Greenpeace, nel suo libro “Warriors of the Rainbow” racconta che durante il suo primo viaggio con una nave di Greenpeace, la Phyllis Cormack, aveva portato con se un libro di miti e leggende indiani in cui c’erano diverse profezie particolarmente impressionanti. Questo libro gli era stato dato da un’anziana nativa americana nomade. Questa donna gli aveva assicurato che il libro gli avrebbe cambiato la vita; il giornalista canadese non ci diede molta importanza e una volta gettato il libro in uno scatolone se ne dimenticò. Ma prima del viaggio sulla Phyllis Cormack raccolse parecchi libri e durante una tempesta pomeridiana, come lui stesso raccontò, questo libro cadde dagli scaffali e se lo ritrovò letteralmente in mano e, a quel punto, incominciò a leggerlo. Venne colpito in modo particolare da un capitolo in cui veniva riportata la storia che una donna anziana chiamata “Eyes of Fire”, della tribù degli indiani Cree, raccontava al pronipote. La tribù degli indiani Cree, proprio mentre stava per essere sconfitta, previde che sarebbe venuto un tempo in cui l’uomo bianco con il suo materialismo avrebbe esaurito le risorse della Terra, ma prima che fosse stato troppo tardi il Grande Spirito degli Indiani sarebbe tornato per far resuscitare i guerrieri pellerossa e insegnare all’uomo bianco il rispetto per la Terra. Il loro nome sarebbe stato Warriors of the Rainbow, Guerrieri dell’Arcobaleno. Tutti a Greenpeace conoscevano questa storia e nel 1978 la prima nave, un motopeschereccio arrugginito che si chiamava “Sir William Hardy”, venne ribattezzata Rainbow Warrior.

Il Guerriero fa paura
Il 10 luglio del 1985 la "Rainbow Warrior" viene affondata dai servizi segreti francesi in Nuova Zelanda, nel tentativo di fermare le proteste contro i test nucleari nel Pacifico. Il bombardamento, in cui perde la vita il fotografo Fernando Pereira, provoca una forte indignazione pubblica in tutto il mondo.
Nel 1987 Greenpeace acquista una nuova Rainbow Warrior, una nave fornita di vele comandate meccanicamente per risparmiare carburante. Costruita nel 1957, la nuova Rainbow è lunga 55,20 metri e larga 8,54. La sua velocità di crociera è di 10 nodi. La nave ha spazio sufficiente per un equipaggio di 30 persone e può navigare ininterrottamente per 30 giorni. La nave viene varata ad Amburgo il 10 luglio 1989: dopo due anni di lavori e riparazioni è pronta per lottare contro i crimini ambientali.
Negli anni, la Rainbow Warrior II viene onorata della presenza di persone famose, capi religiosi, famiglie reali e gruppi rock. Aiuta a trasferire la popolazione di un’isola dell’Oceano Pacifico che era stata contaminata dalle radiazioni, presta soccorso alle vittime dello Tsunami del 2004 nel Sud-Est asiatico e naviga contro la caccia alle balene, il riscaldamento globale e molti altri crimini contro l’ambiente in ogni parte del mondo.


Testimonianze
Storico l’impegno della Rainbow Warrior II nella lotta contro i test nucleari nel Pacifico. Nel 1995 prende parte alla "flotta della pace" per protestare a Mururoa. Commandos francesi abbordano e occupano la nave nelle acque territoriali della Polinesia francese il primo settembre, danneggiandone gravemente le strutture. Ma “non si può affondare un arcobaleno” e alla fine la Rainbow Warrior vince: nel 1996 si pone fine ai test nucleari nel Pacifico.
Stephanie Mills, la portavoce di Greenpeace a bordo della nave nel 1995 di ritorno da Moruroa:
“Sono le 6 di mattina del 10 luglio 1995, il decimo anniversario del bombardamento della prima Rainbow Warrior.
Dopo essere entrati nella zona d'esclusione di 12 miglia intorno all’atollo di Moruroa, dei commando prendono d’assalto la Rainbow Warrior e cominciano a rompere le finestre e a gettare gas lacrimogeni sul ponte.
Non appena lo skipper ferma i motori e l’equipaggio si dirige verso il ponte inferiore la Rainbow Warrior viene speronata da un rimorchiatore francese provocando un buco nello scafo, fortunatamente sopra il livello dell’acqua.
Sono nella stanza dove c’è la radio quando un gruppo di commando prendono a sprangate la porta e gettano altri gas lacrimogeni dal buco. Annaspando per mancanza di ossigeno, riesco a scappare attraverso l’oblò insieme all’operatore radio, Thom Looney e all’attivista Jean-Luc Thierry. Veniamo prelevati di forza dalla Rainbow Warrior e sottoposti a un interrogatorio prima di essere riportati sulla nave e scortati fino alle acque internazionali.”
Dopo 22 anni, la Rainbow Warrior II è stata donata alla ong del Bangladesh, Friendship, che la userà come nave ospedale per prestare cure mediche ad alcune delle comunità più povere del Bangladesh e della Baia di Bengal.




Il nuovo Guerriero
La Rainbow Warrior III è la prima nave costruita appositamente per portare avanti le campagne di Greenpeace e giocherà un ruolo chiave nel futuro dell'organizzazione. La costruzione è stata possibile grazie alle donazioni di più di 100 mila sostenitori che hanno acquistato le varie parti della nave e dell'equipaggiamento sul sito.
È dotata delle più moderne tecnologie di comunicazione, di un eliporto a poppa e di due scialuppe di salvataggio. Per tenere al minimo il consumo di carburanti e farne un mezzo di trasporto verde e sostenibile, è armata con un rivoluzionario sistema di alberatura che sorregge 1260 metri quadrati di vele che sono in grado di assicurare una velocità di crociera media di 15 nodi. La Rainbow Warrior III sarà impegnata negli angoli più reconditi e lontani del pianeta nella sua lotta contro i crimini ambientali e dovrà essere autonoma e in grado di comunicare e mostrare costantemente al mondo quello che sta accadendo e i reati che gli uomini e le nazioni vanno compiendo contro la natura e contro il mare.

A lei e al suo equipaggio il mio Buon Vento e una Lunga Scia a poppa!


Tratto dal sito Greenpeace Italia (link di lato)

mercoledì 21 settembre 2011

Il sole nelle vele e il vento nei motori

Una nave si avvicina lenta al porto. Nella lunga accostata verso il fanale verde, il primo ufficiale controlla sul monitor che le vele ruotino per disporsi con la massima superfice esposta al sole che cala sull’orizzonte. Sul ponte la gru è pronta per le operazioni di scarico. Decine di container aspettano solo di essere velocemente depositati sulle banchine prima di riprendere il mare. Ora si aspetta solo il pilota per andare all’ormeggio...
Questo potrebbe essere un brano di un romanzo di fantascienza oppure potrebbe essere un futuro non troppo lontano.
Dopo il tempo dei clipper e dei mercantili a vela che hanno tracciato le rotte commerciali di tutti i mari del mondo, dopo le navi porta-containers che prima hanno esportato il consumismo nei paesi orientali e poi, per contrappasso, lo hanno riportato indietro con merci a bassissimo prezzo che hanno consumato i mercati dell'Ovest, dopo l’era delle super-petroliere con il loro prezioso e sporchissimo carico, sembra che si stia avvicinando il tempo di una nuova generazione di navi da trasporto, rispettose dell’ambiente e spinte da motori innovativi.
Come per ogni innovazione importante anche qui si prova a coniugare risparmio e difesa dell’ambiente, altrimenti lo scambio non potrebbe funzionare. In questo caso il primo impulso è stato dato dall’aumento del prezzo del barile di petrolio e, in prospettiva, da una diminuzione delle riserve mondiali e quindi il suo ulteriore aumento. Sulla leva della riduzione dei costi si aggiunge il peso del rispetto ambientale, che socialmente diventa sempre più importante, soprattutto agli occhi del consumentore occidentale.
Così, da alcuni anni in qua, c’è stato un fiorire di progetti e sperimentazioni che hanno l’obiettivo di ridurre i costi di esercizio del trasporto marittimo e al tempo stesso di ridurre le emissioni di CO2, che nel settore rappresentano il 5 per cento delle emissioni mondiali.
La nave cui ci si riferiva all’inizio è l’Aquasailor, un progetto di propusione totalmente ecologica per una nave destinata al trasporto di acqua potabile in giro per il mondo. L’innovazione in questo caso consiste nell’abbinamento dell’energia eolica con quella solare: alle vele è applicato un impianto fotovoltaico che consente la propusione in aggiunta o in alternativa al vento. Con una carena specificatamente disegnata per la doppia propulsione, arriva a ridurre i consumi di carburante fino al 50 per cento, ed è al momento la nave commerciale meno inquinante del mondo.
L'Aquasailor, dunque, usa aria e sole per portare acqua ai quattro angoli della Terra. Un fenomeno da cosmologia presocratica!
Un caso interessante è la MS Beluga SkySails, una nave portacontainer con un albero di 15 metri sulla prua cui è collegato un aquilone di 160 metri quadrati. L’aquilone è gestito da un software in grado di calcolare la rotta ottimale in base all’intensità e alla direzione del vento.
Si è calcolato che per questa via il risparmio di carburante possa arrivare fino al 35 per cento (il 20% è il consuntivo dei primi utilizzi reali) che in un anno di utilizzo a regime sfiora la cifra di 300 mila euro.
Teoricamente il sistema, almeno su alcune rotte, consentirebbe di utilizzare il motore soltanto alla partenza e all’attracco.
Dalla comparsa delle prime navi a vapore, le grandi navi a vela sono andate in disarmo e sono state ospitate solo dai musei e dai libri di storia. Ci sono stati in passato timidi tentativi di riutilizzo a fini commerciali negli anni ’70, ma le difficoltà tecniche di concepire un armo un grado di muovere migliaia di tonnellate fecero desistere anche i più convinti. Tuttavia alcuni semi, allora piantati, stanno cominciando a germogliare.
Il Dynarig, è un armo rivoluzionario che viene direttamente dagli anni settanta ed è stato utilizzato su una delle più belle navi a vela mai costruite, il Maltese Falcon varato nel 2006 dal cantiere Perini Navi. E' dotato di vele quadrangolari che richiamano alla memoria gli antichi vascelli e che sono manovrate elettricamente (si arrotolano e srotolano con un pulsante).
Le manovre vengono eseguite agendo non sulle vele ma sull’albero, che ruota su se stesso. In crociera si possono stabilmente mantenere velocità prossime ai 20 nodi (circa 40 Km/h).
E' più che plausibile che una soluzione del genere si possa adattare alle navi da crociera, magari inizialmente quelle destinate a un pubblico più esigente, visto anche il successo crescente della riproposizione di crociere su vere navi a vele quadre, come ad esempio la Signora del Mare o il Royal Clipper.
Negli anni Ottanta è stata costruita una nave come la Maruta Jaya, di ben 64 metri di lunghezza, che adotta un armo Indosail, cioè un’attrezzatura di coperta che consiste in lunghe vele rettangolari orientate e terzarolate elettricamente, e che consente di risparmiare circa il 70 per cento di carburante rispetto a una motonave delle stesse dimensioni.
Anche il Rainbow Warrior II, la goletta di Greenpeace, adotta dal 1989 lo stesso armo, superando il problema del costo e dell’ospitalità di un equipaggio numeroso come sui windjammer di un tempo, con un risparmio di carburante del 40 per cento.
Una recente riscoperta è il rotore Flettner: si tratta di un cilindro rotante ad asse verticale che produce una spinta dieci volte maggiore della forza del vento che la genera entrando nel cilindro e con una direzione perpendicolare alla sua provenienza (effetto Magnus). Insomma, un po’ come nel calcio quando si fa un tiro ad “effetto”: si colpisce la palla a destra e la traiettoria curva verso sinistra.
La E-Ship 1, che trasporta componenti per turbine eoliche nel Mare del Nord, ha due rotori a prua e due a poppa al posto delle vele. Tale disposizione in coperta non limita la capacità di carico, come accadrebbe con un armo tradizionale (alberi e vele), e garantisce una riduzione del 30 per cento dei consumi grazie anche ad un motore diesel di nuova generazione e uno scafo dalla migliore idrodinamica.
Il continuo aumento dei prezzi del petrolio e le norme sulla protezione ambientale con la previsione di multe e maggiori dazi, sta portando le compagnie armatrici a considerare con maggiore attenzione tutte le motorizzazioni alternative. Il 90 per cento delle merci viene movimentato per mare, ma l’intera organizzazione del trasporto marittimo è pervasa da un secolo di attività con un basso prezzo del combustibile e solo ora si ricomincia a considerare le possibili alternative.
L’adozione di sistemi misti nel breve periodo può portare grandi benefici e una significativa riduzione di CO2. L’uso dell’aquilone o di rig innovativi per sfruttare il vento, la sempre migliore efficienza dei pannelli solari, i nuovi sistemi di immagazzinamento dell’energia solare, sono passi in avanti per il superamento dell’energia fossile.
Tuttavia permangono problemi spesso legati all’organizzazione della produzione e ai tempi di viaggio che richiedono un drastico cambiamento. Si deve ripensare al trasporto considerando il vento e il mare come variabili da non trascurare, importanti dal punto di vista economico perchè in grado di ridurre i costi del trasporto e riprogrammare i movimenti anche in relazione alle stagioni e ai venti dominanti, proprio come si faceva fino a un secolo fa.
Anche i comportamenti individuali dovranno essere modificati, in particolare nel settore delle crociere dove gli sprechi elettrici per l’uso di utenze private dovrà essere contenuto a favore dei servizi di bordo, della strumentazione e della locomozione.
Ci andiamo avvicinando ai margini di un territorio con nuovi modi di vivere e produrre. E’ un cambiamento che assomiglia ad una rivoluzione.
E’ per questo che dobbiamo lavorarci tutti, individui e imprese.
Ogni giorno. Tutti i giorni.

giovedì 8 settembre 2011

Trivelle d'Italia

A volte succedono cose che sembra non potranno mai riguardarci da vicino.
Almeno così sembra, qui in Italia.
Ad agosto una enorme macchia di petrolio, fuoriuscito senza controllo da una piattaforma offshore della Shell, ha toccato le coste scozzesi.
A poco più di un anno dal terribile disastro della Deepwater Horizon nel golfo del Messico, di proprietà della BP, dove per oltre sei mesi miliardi di barili di petrolio sono stati riversati nelle acque tra la Florida e la Louisiana, con danni riparabili nei tempi di un’era geologica, un altro incidente ci obbliga a ripensare alla fragilità della tecnologia utilizzata per estrarre il greggio dal mare e alle conseguenze di ogni suo cedimento.
Qualcuno penserà che si tratti di vicende lontane, che sia nobile preoccuparsi per gli altri e per l’ambiente, ma che l'Italia e il petrolio non abbiano nulla in comune.
Non è così.
In Italia oggi ci sono ben 115 piattaforme offshore per l’estrazione di petrolio e gas e altre 54 piattaforme dismesse. Per la maggior parte si tratta di impianti di proprietà dell’Eni che spesso superano i 30 anni di età.
Per completare il quadro ci sono altri 25 permessi di ricerca di idrocarburi rilasciati fino al mese di maggio, che lasciano presagire la loro trasformazione in altrettanti impianti di perforazione. Secondo Legambiente sono 117 le prossime trivelle che cercano uno spazio nei nostri mari.
Attualmente la concentrazione delle piattaforme italiane interessa il Mar Adriatico, lungo le coste della Romagna e dell’Abruzzo, mentre i nuovi permessi di ricerca spaziano lungo il Canale di Sicilia e le coste orientali della Puglia, in particolare intorno alle isole Tremiti.
Nel lungo tratto di mare che va da Trapani ad Agrigento e fino a Ragusa sono numerose le società che si preparano alla trivellazione. Accanto ai colossi del settore (BP e Shell, ancora loro) ci sono anche alcune società (Northern Petroleum, Audax Energy, Transunion Petroleum Italia) dalla opaca composizione societaria e con un basso capitale sociale che non sembrano offrire alcuna garanzia nè dal punto di vista finanziario nè dal punto di vista tecnico, e non si capisce come e perchè siano stati concessi loro i permessi di ricerca.
Con timore e attenzione si guarda all’attività della Atwood Eagle, la trivella che staziona non lontano da Pantelleria e che pare abbia ripreso la sua attività, minacciando la bellezza e la purezza di un’isola che con fatica cerca di far sentire la sua voce a un governo sempre più sordo. Si tratterebbe di una perforazione con tanti rischi: il fondo è molto distante, circa 1700 metri, elemento che aumenta il rischio di incidente; la zona è in acque prossime al Golfo della Sirte, area di forti tensioni politiche; ci si trova al centro del Mediterraneo, un mare chiuso e con un ricambio lentissimo e che sebbene rappresenti solo l’uno per cento della superficie marina mondiale è un’area con notevole varietà biologica e con una forte presenza umana.
Purtroppo mancano norme, trattati e convenzioni internazionali che mettano il nostro mare al riparo dalla forza distruttiva degli speculatori. Oggi le nostre leggi vietano trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa, limite largamente insufficiente a metterci al riparo dalla devastazione di una marea nera.
In Puglia, a partire da ottobre, dovrebbero iniziare i sondaggi dei fondali con l’ Air Gun, un macchinario che produce violente esplosioni di aria compressa sui fondali e permette di dedurre la composizione del sottosuolo sulla base delle onde riflesse. Questa pratica è risultata ovunque estremamente dannosa per il pescato, producendone una diminuzione fino al 70% in un raggio di 40 miglia, ma soprattutto è il primo passo per l’installazione di una piattaforma petrolifera che, nel migliore dei casi, provocherà un inesorabile decadimento dell’ecosistema marino legato alle fisiologiche perdite di petrolio e sostanze inquinanti.
Perchè sta succedendo tutto questo?
L’Italia si sta trasformando in un paese esportatore di petrolio?
Diventeremo tutti ricchi come i pascià delle fiabe?
In reatà la qualità del greggio italiano non è delle migliori, anzi è molto bassa, ed anche la quantità non è eccessiva. Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico le riserve italiane stimate sono pari a 187 milioni di tonnellate che, in base ai nostri consumi attuali, si esaurirebbero in due anni e mezzo.
Si tratta dunque di una quantità molto modesta.
E allora quale sarebbe il vantaggio?
E’ una questione di royalties, vale a dire l’ammontare che lo Stato trattiene sul prezzo di vendita del greggio. Al momento la legislazione italiana prevede royalties al 4% e una franchigia fino a 50.000 tonnellate (300.000 barili l’anno). Sotto questo limite non si paga nemmeno il 4% e, purtroppo, non esiste alcuna restrizione neanche per il rimpatrio dei profitti.
Questa combinazione è considerata dalle compagnie petrolifere una delle più convenienti del mondo e per comprenderlo basti guardare agli altri paesi: ad esempio la Libia trattiene l’85%, la Russia l’80% e l’Alaska il 60%.
Facendo alcuni semplici calcoli, usando il 20% delle riserve stimate (40 milioni di tonnellate o 250 milioni di barili) e applicando il livello di royalties della Russia (80%) e senza alcuna franchigia, in dieci anni si potrebbe ridurre il debito pubblico di almeno il 10% e tutto a carico delle compagnie petrolifere.
Se al contrario queste misure dovessero dissuadere i petrolieri dall’attività di estrazione in Italia, allora sarebbe ancora meglio: zero inquinamento e un mare pulito da lasciare ai nostri figli.
Invece la corsa all'oro nero continua indisturbata.

venerdì 19 agosto 2011

Scempi di cemento


Baia delle Zagare nel Parco Nazionale del Gargano
L'albergo sorge sulla costa garganica all'interno del Parco Nazionale del Gargano tra Mattinata e Vieste immerso in una splendida insenatura a picco sul mare in un tratto di costa alta, frastagliata e costellata di meravigliose grotte marine. E' articolato in ville in stile mediterraneo in perfetta armonia con la natura circostante.
Le due spiagge lunghe circa 1 km, al riparo di bianche pareti rocciose a strapiombo sul mare sono riservate agli ospiti dell'albergo e sono raggiungibili con ascensori costruiti nella roccia.
... ma insomma, dico io, era proprio necessario deturpare la costa con quell'ascensore e quella terrazza in cemento che sono un insulto alla natura, al buon gusto e al buon senso?
Era proprio necessario fare quei due sgorbi? E con quale coraggio poi si parla di "armonia con la natura circostante"? Forse ne dovremmo ridefinire il concetto...
E poi, possibile che nessuno lo abbia impedito?
Mi permetto un suggerimento: perchè non scavate in tutto il costone dei mini appartamenti con frigo bar e vista mare? Tanto, l'ascensore già c'è...

mercoledì 15 giugno 2011

Un mare di plastica


C’è un grande continente inesplorato al centro dell’oceano Pacifco. E’ largo almeno un milione di chilometri quadrati ma non è segnato su nessuna carta nautica.
E’ il Pacific Garbage Vortex che si trova a metà strada tra le Hawaii e le coste del nord America, dove le calme equatoriali e le correnti che si muovono in senso orario hanno formato un gigantesco vortice che raccoglie i rifiuti abbandonati in mare delle Americhe e dell’Asia, miliardi e miliardi di rottami di plastica, reti, attrezzatura da pesca, scarti della civiltà del consumo in cui viviamo.
Questa spazzatura galleggia appena sotto il pelo dell’acqua e nei primi 4-5 metri. Molti frammenti entrano in simbiosi con la flora e la fauna e lentamente si depositano sul fondo, altri vengono inghiottiti da pesci e uccelli che li scambiamo per cibo. Infatti la plastica si fotodegrada, spezzettandosi in particelle sempre più piccole che assomigliano al plancton e che quindi diventano cibo per i pesci, meduse e tartarughe causandone spesso la morte per soffocamento o per blocco intestinale. Questi animali, risalendo lungo la catena alimentare, finiscono con l’essere cibo anche per l’uomo con effetti sulla salute ancora da determinare.
Sebbene già alla fine degli anni Ottanta alcuni studi facessero preconizzare l’esistenza di un simile mostruso fenomeno, l’effettiva scoperta di questo orribile scempio è stata del tutto casuale.
Charles Moore, ricercatore californiano completamente dedito al mare e alla lotta contro l’inquinamento, nel 1997 era a bordo di Arguita, il suo catamarano, di ritorno da una regata alle Hawaii. Non essendo di natura particolarmente competitiva, sceglie una rotta più settentrionale rispetto alle altre barche e si imbatte in quest’enorme ammasso di spazzatura galleggiante, impiegando più di una settimana per attraversarlo. Preleva insieme al suo equipaggio alcuni campioni per analizzarli al suo rientro e ne traccia una prima localizzazione. Da subito si ipotizza che l’accumulo si sia formato a partire dagli anni cinquanta come conseguenza della corrente marina dell’area dotata di un movimento orario a spirale (North Pacific Subtropicali Gyre) che consente ai rifiuti galleggianti di aggregarsi.
Alcuni anni dopo, all’incirca nel 2006, il ricco ereditiero ambientalista David de Rotschild legge della scoperta e degli studi di Capitan Moore e inizia a progettare una spedizione per dare risonanza internazionale al problema. Inizia così l’avventura del Plastiki, che prende effettivamente il mare nel 2010, dopo una lunga gestazione progettuale e costruttuva.
Il Plastiki è un catamarano costruito utilizzando 12.000 bottiglie di plastica riciclata riempite con ghiaccio secco che, riscaldato, si trasforma in diossido di carbonio aumentando la pressione interna e rendendole rigide. Le bottiglie sono fissate ad una struttura di plastica biodegradabile (srPet) sufficientemente rigida da sopportare le sollecitazioni del vento e del mare in un viaggio di quasi 8500 miglia da San Francisco a Sidney. La barca è stata concepita per essere autosufficiente e dotata di energia pulita, attraverso la combinazione di quattro distinte fonti: una dinamo collegata ad una cyclette fissata in coperta, un generatore eolico, pannelli solari calpestabili e un motore alimentato da carburante biodiesel. Per approfondire si può consultare direttamente il sito www.theplastiki.com.
L’effetto più interessante della spedizione, che altrimenti potrebbe essere degradata al rango di una gita di fighetti pieni di soldi e basta,è l’essere diventato un potente catalizzatore di iniziative legate al riciclaggio e alla conoscenza del problema che altrimenti sarebbe rimasto confinato sulle pubblicazioni scientifiche.
Anche nel Tirreno esiste un’isola di spazzatura, visto che siamo abituati a non farci mai mancare niente. Nel tratto di mare tra l’arcipelago toscano, la Corsica e la Liguria le correnti hanno determinato un affastellamento di rifiuti, soprattutto presso l’isola d’Elba, dove sono stati rinvenuti 892.000 frammenti di plastica per chilometro quadrato contro la media di 115.000 del resto del Mediterraneo (dati Ifremer/ Expedition Med). E’ facile immaginare che si tratti di rifiuti sversati in mare dai fiumi della riviera ligure e toscana e dalle acque non depurate delle città costiere. Di certo una qualche colpa è da ascriversi anche all’antropizzazione eccessiva che si crea lungo quelle coste nel periodo estivo.
Insomma, è colpa nostra!
La scoperta del vortice del Pacifico e di tanti altri ammassi in giro nei mari del mondo è l’ennesima prova della necessità di riconsiderare il modello di sviluppo occidentale basato su una crescita senza limiti e sullo sfruttamento intensivo di tutte le risorse naturali, come il petrolio e la plastica che da esso ne deriva. La crescita esponenziale della produzione mal si concilia con la possibilità di assorbirne gli effetti sul pianeta. Un percorso virtuoso deve vederci impegnati con lo stesso zelo per consegnare un mondo più sano ai nostri figli.
Non sono un sognatore, anzi, ma quello che ho visto nell’acqua dell’Atlantico, a più di mille miglia dalla costa mi spinge a dire che dobbiamo almeno provarci.
Il mare è di tutti ma la responsabilità di ripulirlo e proteggerlo è di nessuno.
Purtroppo.
Mi riesce difficile immaginare che uno stato o un’organizzazione internazionale decidano all’improvviso di ripulire il mare e non saprei nemmeno dire se esista una tecnologia in grado di farlo, ma credo che sia importante parlarne.
Solo così si può tentare di limitare il fenomeno.
Solo così si può iniziare a formare una coscienza ambientale che ci aiuti a non far morire il nostro futuro.
Dobbiamo insistere.
Ogni giorno.
Tutti i giorni.


Fonti: www.effettoterra.org, Il Giornale della Vela, Wikipedia

Una semi-isola, il filo dell’acqua e l’isola dei genovesi

C’è un angolo di Sardegna che conserva un carattere e una personalità fuori dall’ordinario. Lontano dagli usuali giri turistici, lontano...