sabato 4 marzo 2023

Napoli City Half Marathon, cronache dall’ultima fila

 


Cinquemila persone. M dicono che siamo cinquemila. Quello che so per certo è che a malapena si intravede la partenza. Aspettiamo su Viale Kennedy, un lungo rettilineo contornato dai platani, e cerchiamo di non far raffreddare le gambe nell’ attesa.

Allo sparo non succede niente. Immagino che gli atleti élite, quelli in prima fila, siano partiti come missili, ma loro corrono a tre minuti al chilometro e fanno letteralmente un’altra gara. Saprò di loro all’arrivo o direttamente dal Tg stasera. Corrono per arrivare primi, noi corriamo per sentirci vivi.

Noi, i runner dell’ultima fila, un po’ come i loggionisti nella lirica, cominciamo a camminare dopo quasi cinque minuti. La linea di partenza resta ancora distante e siamo ancora troppo compatti per correre. Avvio il GPS e metto il cellulare nel marsupio. Finalmente la linea. Mi guardo intorno e vedo che facciamo tutti lo stesso gesto: avviamo il cronometro, uno sguardo intorno e si comincia.

Di fronte il Politecnico, ancora bello e originale a dispetto dell’età. Pochi respiri e lasciamo lo stadio sulla sinistra. In pratica è come se l’intera curva A stesse partecipando a questa gara. C’è un fiume di persone che corre, nel silenzio si sente il rumore delle scarpette che battono sull’asfalto. Qualcuno urla per scaricare l’emozione e farsi coraggio. Si canta e si corre.

Su Via Giulio Cesare finisce il primo chilometro e, poco dopo lo Sferisterio il secondo. Già, lo Sferisterio, uno dei misteri irrisolti di questa città: ospitava la pelota basca, poi è stato una sala per concerti e poi è stato bruciato. Saranno passati all’incirca quarant’anni e resta ancora lì, in tutta la sua compiuta indeterminazione.

Prima galleria e lascio andare le gambe: ora è in discesa e ne approfitto per guadagnare qualche secondo. Al ritorno ci sarà da penare. Cerco di rilassare le spalle e respiro “con la pancia”. Mi porta la strada e devo solo assecondare. A Piazza Sannazzaro si ricomincia in piano.

Ci sono alcuni concorrenti che spingono carrozzelle e vedo anche alcuni runner con protesi o evidenti problemi motori. Ci vuole un grande amore e una enorme forza per correre così e il mio rispetto per loro è infinito. Mi scosto e li lascio andare.

Via Caracciolo è grigia stamattina, il ritmo è quello previsto in allenamento. Non c’è niente da improvvisare in una corsa lunga. Quello che hai fatto nell’ultimo mese è esattamente quello che potrai fare. La strada restituisce solo quello che hai dato. I chilometri diventano quattro e si arriva a Via Partenope, dopo aver corso tra la Villa Comunale e il mare. Adesso di fronte si vedono il Vesuvio e il Castel dell’Ovo.

C’è il primo ristoro. Prendo l’acqua e il gel che ho portato da casa. Un paio di sorsi e riprendo pian piano il ritmo. Prima mezz’ora andata.


Discesa veloce su Via Acton e poi, dopo la darsena, si prosegue su Via Marina costeggiando il porto. La strada è larga e si corre bene. Si cominciano a vedere i primi che incrociano in senso inverso. Nel tempo che noi abbiamo impiegato per fare sei chilometri loro ne hanno percorsi quindici e questo fa tutta la differenza del mondo. Un po’ di invidia ma nemmeno troppa. In me prevale lo stupore.

Intanto noto che Napoli senza le auto, soprattutto qui al centro, è davvero insolita. Sarò passato di qui migliaia di volte ma così, di corsa e senza macchine, diventa un’esperienza quasi spirituale. O forse è la mia testa che vuole più ossigeno. Ricomincio la respirazione diaframmatica e controllo la mia corsa. Spingo con le braccia e di tanto in tanto anche con i polpacci. Sto recuperando qualche secondo sulla velocità.

Arrivo e supero l’incrocio con Via Duomo. I chilometri aumentano e anche la stanchezza.

Al Ponte della Maddalena il secondo ristoro: prendo l’acqua e cammino qualche decina di metri per bere senza versarmi tutto addosso.

Questa strada è decisamente brutta, eppure proprio da queste parti si sono verificati eventi davvero notevoli nei secoli scorsi. Nel 1631, durante una delle più violente eruzioni del Vesuvio, fu portata in processione fin qui la statua di San Gennaro per scongiurare che la lava entrasse in città. Il Santo fece il miracolo e la lava si fermò proprio sul confine con la vicina San Giorgio a Cremano. Nel 1799. Anno della Rivoluzione napoletana, proprio qui le truppe monarchiche del Cardinale Ruffo vinsero la resistenza delle armate repubblicane ed entrarono in città ponendo fine all’esperienza della Repubblica partenopea. Dell’antico ponte a cinque archi che segnava l’ingresso orientale in città ora non resta più nulla.

Torno su Via Marina dove c’è il traguardo dei dieci chilometri e il primo controllo cronometrico.

All’incrocio con Corso Arnaldo Lucci c’è l’installazione di Bianco e Valente “nessuno escluso”, una scritta rossa montata su un’intelaiatura circolare. Da tre anni è lì, come simbolo di accoglienza e di tolleranza, e chissà quante discussioni genera nelle auto che ogni giorno percorrono la strada. Del resto, non è proprio questa la funzione dell’arte?

È passata oltre un’ora di gara. Forse un’ora e dieci. Siamo a metà mentre a Fuorigrotta staranno già applaudendo i primi, sia tra gli uomini che tra le donne. Ma la nostra corsa è un’altra. Per me la sfida è con me stesso. Voglio farcela, migliorare il risultato dell’anno scorso, imparare a gestire i muscoli che mi fanno male, i crampi, il tempo che passa, il respiro che comincia ad accorciarsi.

Via Marina al ritorno sembra più lunga. In lontananza vedo che dobbiamo girare a destra e passiamo per Piazza Borsa e poi il Rettifilo. Anche qui correre dove passano milioni di macchine ogni giorno è surreale. Si vede qualche automobilista nervoso che vorrebbe passare lo stesso e qualche vigile, altrettanto nervoso che glielo impedisce. Proprio non capisco perché per un giorno all’anno, e di domenica mattina, non si riesca a fare a meno dell’automobile. Saluto con la mano e vado avanti. Giriamo per tornare indietro, passiamo l’ultimo traguardo intermedio, ci muoviamo verso l’Università.

Intorno a me vedo che anche gli altri stanno cominciando a sentire la fatica. Qualcuno si ingobbisce per lo sforzo, qualcuno cammina.

Siamo all’incrocio con Via Mezzocannone. Il nome di questa strada mi è sempre piaciuto. Pare che derivi da una fontana che serviva all’abbeveramento dei cavalli con un tubo di portata molto corto (appunto mezzo cannone). Ecco, a questo punto anche io mi sento a mezzo servizio. Siamo a quattordici chilometri e torniamo su Piazza Municipio.

La piazza è bella, lineare, minimalista. Forse sono uno dei pochi napoletani a pensarlo ma a me piace molto. Una piazza di pietra, come piazza Duomo a Milano, enorme e squadrata.  Il progetto è di Alvaro Siza che si è dovuto adattare, nei tempi e negli spazi, ai numerosi ritrovamenti. Sotto c’è la metro (che non porta a Fuorigrotta altrimenti un pensierino ce lo farei) ma, soprattutto, c’è una leggerissima discesa che mi permette di accelerare.

Si svolta a destra, ancora Via Marina, passando sotto il Maschio Angioino, ultimo ristoro al quindicesimo chilometro, e poi nella galleria della Vittoria. Ci sono voluti otto anni ma alla fine questa l’hanno completata e riaperta. L’odore è terribile ma c’è di buono che dopo pochi minuti siamo a Piazza Vittoria e di nuovo a Via Caracciolo.


Sta cadendo qualche goccia di pioggia. Mi piace correre sotto l’acqua ma ora non è il caso di esagerare. Siamo anche controvento e la temperatura scende. Qualcuno si veste e compaiono impermeabili e magliette. Finora ho avuto caldo, ora invece sto bene e, sia pure con qualche pausa di troppo, riesco ancora ad andare. Due ore di corsa. Sul traguardo di Viale Kennedy ora starà passando il gruppone. Per noi invece non è un momento facile.

Sedici chilometri. Siamo arrivati ma non siamo arrivati.

Devo riprendere a spingere. Inclino leggermente il busto e guardo avanti. I piedi spingono insieme alle braccia. Provo a rilassare le spalle e le mani e a sorridere. Non perché sia particolarmente felice, ma qualcuno dice che così si contraggono meno muscoli e quindi serve meno energia.

Non conosco nessuno che sia contento di far fatica, quello che ti muove è la voglia di arrivare, di raggiungere il traguardo. I primi ormai saranno già in albergo, magari sotto la doccia con la medaglia al collo, come fa qualcuno; per me c’è ancora da correre.

Dopo un paio di chilometri sono di nuovo a Piazza Sannazzaro. Adesso la salita. La galleria Laziale, facile e veloce all’andata, ora, dal lato sbagliato, mostra tutta la sua pendenza. Rallento, mi inclino in avanti e inizio la risalita. Dopo 1450 passi sono fuori. Mancano solo due chilometri e 97 metri.

Via Giulio Cesare è un interminabile nastro che mi riporta a Piazzale Tecchio e poi, finalmente, gli ultimi 97 metri. Vorrei camminare, i muscoli urlano, mi fa male la schiena, ora mi vengono i crampi, ho sete, ma dove cazzo sta il traguardo, guarda c’è il fotografo, ridi che ti stanchi di meno, ancora un po’, qualcuno mi incita, qualcuno applaude per solidarietà, qualcuno per sbaglio.

Eccola là. La linea di arrivo. È l’unica cosa che voglio. Ora sono contento e sorrido davvero.

Lo speaker dice il mio nome.

Sorrido. 

Il traguardo.

giovedì 12 novembre 2020

L'imbelle

 


1. 

Promessa:

Subito dopo la prima elezione (2011): “Porterò Napoli ad avere una raccolta differenziata al 70% entro sei mesi”

Svolgimento:

Nel 2020 siamo al 40%.

2.

Promessa:

I quartieri Spagnoli diventeranno come Montmartre a Parigi, con locali per turisti e ritrovo internazionale di artisti” (2011)

Svolgimento:

Si.

Certo, certo.

3.

Promessa:

Faremo una zona rossa, come ad Amsterdam, dove i giovani possano stare in intimità senza pericoli” (2013)

Svolgimento:

In effetti una zona rossa la stiamo per fare …

4.

Promessa:

Crollano pezzi dell’intonaco nella Galleria Vittoria dalle facciate sia dal lato di Via Chiatamone che dal lato di Via Acton. Il vicesindaco Sodano: “In sei mesi tutto sarà a posto!” (2015)

Svolgimento:

Ad oggi, dopo 5 anni, la Galleria è stata chiusa, il traffico impazzito, le impalcature stanno lì e l’intonaco continua a cadere.

5.

Promessa:

Il verde pubblico è una nostra priorità. Abbiamo finanziamenti per 15 milioni. Sostituiremo gli alberi pericolanti e pianteremo nuovi alberi” (2018)

Svolgimento:

Parchi devastati, alberi spezzati, tronchi mai rimossi, ceppaie in tutte le strade della città.

6.

Promessa:

Chiuderò le scuole ad ogni allerta meteo!”

Svolgimento:

Questa promessa l’ha sempre mantenuta.

Tranne una volta.

Confuse l’allerta verde per la pioggia, con quello rosso per neve e ghiaccio.

La neve arrivò e…

7.

Promessa:

Con i nuovi treni della metro saremo secondi solo a Tokyo” (2018)

Svolgimento:

In Giappone sono preoccupatissimi. Da due anni.

8.

Promessa:

Metterò insieme una flotta di 400 imbarcazioni per andare a prendere i migranti ed ospitarli a Napoli” (2019)

Svolgimento:

Si sono visti una decina di gommoni che hanno fatto il giro da Mergellina alla Colonna Spezzata e ritorno. Quindici minuti abbondanti di navigazione.

9.

Promessa:

Non c’è nulla che il Sindaco debba fare per l’emergenza Covid19 “ / “Prenderò misure clamorose, mai viste”.

Svolgimento:

Mai viste.

10.

Vabbè dai, fermiamoci a nove. Mi deprimo troppo.





giovedì 25 giugno 2020

Bagnoli, il Napoli, Sarri e gli antichi romani

A volte capita di perdersi nei propri pensieri.
Dopo la finale di Coppa Italia vinta dal Napoli contro la Juve continuo a pensare che ci sia qualcosa di incompiuto, qualcos’altro da fare.
Si, devo ancora fare qualcosa ma non riesco a capire cosa. È uno di quei pensieri che diventano così ossessivi da farti dimenticare tutto il resto.

E allora esco e comincio a camminare senza una meta, così come capita, solo per camminare.
E capita che me ne vado in giro per Bagnoli, che i Romani chiamavano Balneolis, le piccole terme, dove l’acqua bolle e lo zolfo ingiallisce il terreno. Cammino lungo il lungo vialone centrale, Viale Campi Flegrei, i campi ardenti descritti da tanti autori latini. Da qui si vede che nulla è stato costruito a caso. Il quartiere ha una pianta regolare, a tratti sembra uno di quegli accampamenti degli eserciti romani, con il cardine principale rappresentato proprio dal viale e i vari decumani, il reticolo di strade perpendicolari. E dagli antichi romani vengono i nomi delle strade.

Comincio a girare a caso, dopo il monumento che ricorda i caduti sul lavoro della vecchia fabbrica, e incrocio Via Enea, l’eroe troiano che riuscì a fuggire dalla città asiatica prima che i Greci la distruggessero con il padre Anchise e il figlio Ascanio sulle spalle, come ci racconta Virgilio.
E proprio Enea, attraverso il figlio fondatore di Albalonga, è uno dei progenitori di Romolo e Remo.

Continuo a camminare e trovo Piazza Gaetano Salvemini, un socialista degli inizi del ‘900, antifascista e uomo del Sud, che pagò con la prigione e l’esilio per le sue idee.

Ecco, la coerenza e la dignità dei tempi antichi.

Incrocio di nuovo Via Enea, che quindi non a caso è l’unica strada che attraversa tutta Bagnoli, passa sopra i binari della Cumana e arriva fino all’Italsider, nei pressi di un vecchio ingresso. Proprio quella fabbrica in cui hanno lavorato decine di migliaia di napoletani, di siciliani, pugliesi e anche operai che venivano dal settentrione.

Proprio come il padre di Maurizio Sarri, ora allenatore della Juve. E pensare che fino a due anni fa … vabbè questa è un’altra storia.

La strada mi riporta dentro il quartiere dopo aver superato di nuovo la Cumana. In effetti quest’ultima a Sud e la Metro a Nord segnano i limiti del quartiere, proprio come due valli di un castrum romano.

Comincio a capire meglio.

Percorro tutta Via Amedeo Maiuri, l’archeologo che rinvenì l’Antro della Sibilla a Cuma, che diresse campagne di Scavi a Pompei, Ercolano, Capri, che iniziò le esplorazioni marine nel golfo di Baia. Si, è giusto che questa strada sia sua.

Senza accorgermene arrivo a Via Eurialo e poi scendo a Via di Niso, la strada parallela. Eurialo e Niso, due amici, due eroi, forse due amanti. Molti sostengono che avrebbero dovuto essere ricordati con un’unica strada, Via Eurialo e Niso, l’uno “insigne per bellezza e l’altro valente nell’uso delle armi”, che morirono nel tentativo di avvisare Enea di un tradimento.

Eroi che non trionfano. Tradimenti.

Riprendo la salita lungo Via Lucio Silla, console e dittatore, il capo degli optimates che combattè e vinse contro i populares di Caio Mario, l’infame inventore delle liste di proscrizione, da allora adottate in ogni parte del mondo.

Incrocio ancora Via Ascanio, e poi Via Acate e Via Ilioneo, altri due amici e compagni di Enea che con lui fuggirono da Troia, e che con Via Eurialo e Via di Niso sono i decumani del quartiere.
E sono cinque strade.
Cinque, come le dita di una mano.

Con tutti questi nomi che mi girano per la testa passo per Via Silio Italico, anch’egli politico e poeta epico. Qui sembra abbia vissuto Maurizio Sarri da bambino.
È da qui che devo partire per capire.

Ricordo il modo di combattere dei legionari romani: file e file di soldati in armatura e scudo.  Ogni soldato proteggeva quello alla sua sinistra con lo scudo, quello di dietro sosteneva nella spinta quello che stava davanti e lo rimpiazzava per farlo riposare. E tutti spingevano e andavano avanti a demolire i nemici. Fino in Persia, fino in Germania, fino in Scozia. Le ali di cavalleria ausiliaria proteggevano i fianchi, rallentavano l’avanzata di ogni esercito nemico e poi i legionari finivano il lavoro.

Si, comincio a capire il disegno.

È quello che fa il Napoli di Gattuso. Due linee di quattro tra difesa e centrocampo e un uomo a sostegno dell’una e dell’altra. Le ali a spezzare il gioco e tutta la linea a spingere.

Cinque uomini nella linea, uniti come le dita di una mano.

E arrivo in Via Sibilla, la sacerdotessa di Apollo che scriveva il futuro sulle foglie e lo affidava al vento. Quella che viveva nell’Antro scoperto da Maiuri. La Pizia, temuta e rispettata, lo aveva detto e lo aveva scritto: “Mano”.

Ora ho capito quello che ancora mancava.

Una mano, ma non proprio una mano aperta.

Un dito.


mercoledì 9 ottobre 2019

AC 75, primi sguardi

E' tempo di America's Cup. L'appuntamento è per il 20121 ad Auckland ed una nuova classe è stata messa a punto in questi ultimi mesi. Gli AC 75 sono barche di circa 22 metri, larghe fino a 5 e con un albero di quasi 27 metri. Torna l'equipaggio numeroso con 11 uomini in barca a governare, produrre energia ed elaborare tattiche e strategie per andare più veloci del vento. Si stanno mettendo a punto delle macchine che saranno capaci di raggiungere dai 25 ai 38 nodi nelle andature strette e dai 32 ai 50 nodi alle portanti salendo su dei mostruosi foil lunghi ben 5 metri.
Le appendici (timoni e foil) saranno uguali per tutti mentre la ricerca progettuale dei team si potrà concentrare su scafi e vele.
Questi i numeri e finora quattro nuove barche sono state varate.
Quattro barche completamente diverse, frutto di un lavoro di ricerca spinto alle estreme conseguenze, sono ora sotto gli occhi di tutti.
A breve le vedremo tutte in navigazione e potremo anche valutare le scelte su alberi e vele ma è già chiaro che qualcuno ha sbagliato e che le prestazioni non potranno essere tanto simili come nelle ultime edizioni della coppa.

Il primo varo è stato quello del team vincitore dell'ultima coppa e paese opitante della prossima edizione, Team New Zealand, che ha messo in acqua il suo Te Aihe, il delfino, che ha subito messo in chiaro il livello tecnologico e di design al quale saranno chiamati a competere gli altri team.
Il defender ha presentato una barca con una grafica accattivante (da ferma sembra sfilare a 60 nodi sotto gli occhi) e una linea molto filante dove si impone una prua inversa sul modello dei grandi catamarani, una poppa con poco volume e un cavallino inverso.
La zona di attacco dei foil (uguali per tutti) è scavata forse per facilitarne il movimento o per rinforzare la zona che verosimilmente subirà fortissimi carichi.
La novità , ripresa anche da tutti gli altri team, è il doppio pozzetto a poppa, una sorta di doppio corridoio, che ospiterà i grinder per la produzione di energia e il timoniere con la sia afterguard. Dalle prime interviste già si capisce che ci si vada orientando per una coppia di timonieri (mura a dritta e mura a sinistra) per ridurre gli spostamenti e per l'inutilità degli stessi, visto che lo sbandamento sarà quasi inesistente e quindi il peso dell'equipaggio sopravento non sarà più necessario.

La seconda barca a sendere in acqua è stata The Defiant, l'insolente,  del Team American Magic. In una grigia giornata dell'estate newyorchese è emerso da un capannone una barca che sembra il contrario di quella neozelandese: una prua tonda e larga, tipo scow dei grandi laghi del nord, che ricorda un po' gli ultimi esiti progettuali dei mini 6,50 e di qualche 60 piedi IMOCA, completamente affusolata, rotonda al punto che qualche osservatore già parla di "suppostone", un lunghissimo bompresso (finora di dubbia utilità visto che si è utilizzato solo il fiocco). Mentre Te Aihe sembra pensata per navigare questa sembra pensata per volare, sembra avere un'aerodinamica studiata per ridurre gli attriti nell'aria al punto da dover riscrivere i concetti di opera viva e opera morta.
Non a caso gli americani ci hanno subito mostrato la potenza e la leggerezza di The Defiant che è stata la prima ad esibirsi in volo sui foil subito dopo il varo.

Luna Rossa del Team Prada, il Challanger of Rercord,  è ancora la più bella e speriamo che sia anche la più veloce. Dalle immagini del varo vediamo uno scafo filante, con un elegante cavallino inverso abbastanza evidente, accentuato da una poppa rastremata fino ad arrivare a zero sullo specchio di poppa. La prua è dritta e gradualmente lo scafo si svasa andando verso l'albero; quest'ultimo è appoppato disegnando un triangolo di prua generoso se si considera il lungo bompresso. La coperta è liscia e volumi di ingombro sono presenti a centro barca (baglio massimo) per consentire il "rimbalzo" in caso di caduta dai foil. Da notare che è l'unica barca ad avere una sorta di skeg a poppa la cui unica funzione è di facilitare la navivazione con lo scafo immerso, un'opzione utile solo con pochissimo vento.

L'ultima barca vista finora è Britannia di Team Ineos UK, di gran lunga la più sorprendente delle quattro. La prua bassa sull'acqua risale velocemente con lo scopo evidente di non far scorrere l'acqua sullo scafo. Il bordo libero è verticale e alto, squadrato, mentre la carena è piatta, tondeggiante a prua. La poppa è tronca e alta. L'insieme sembra avere lo scopo di creare tanto volume o per ospitare gli impianti sotto coperta o per far rimbalzare lo scafo sull'acqua e rimetterlo sui foil in caso di errore o perdita di velocità. Questa barca per essere brutta è brutta assai, ma è così anticonvenzionale e diversa dalle altre che possiamo già dire o che gli inglesi hanno capito tutto oppure che non hanno capito niente. 

Aspettiamo di vederle tutte in acqua e con l'armo definitivo per una valutazione più completa, ma già così sembra di assistere ad una sfida mai vista, di un livello di molto superiore alle ultime edizioni della coppa dove le innovazioni sono state numerose e ambiziose.
Scelte progettuali diverse ed estreme, barche che navigano nell'aria: è proprio una bella sfida e siamo solo all'inizio. L'appuntamento per vederle tutte insieme in acqua è a Cagliari dal 23 al 26 aprile dell'anno prossimo.
Siamo già lì.




giovedì 23 agosto 2018

Tremiti, le isole selvagge


Un mucchio di rocce scagliate nel mare. Da un gigante, da un eroe omerico o da un terremoto.
Sono le isole Tremiti, che in realtà sono un pezzo del promontorio del Gargano che si è staccato ed ha assunto l’attuale forma. Le isole che tremano, per i numerosi terremoti che le hanno plasmate o le isole Diomedee. Il mito le vuole rifugio scelto da Diomede, eroe acheo della guerra di Troia, che venne qui a rifugiarsi dopo un lungo girovagare, come il suo amico e compagno di avventure Ulisse. Alla sua morte Afrodite, forse per vendetta o forse per compassione, trasformò i suoi compagni in uccelli marini, le diomedee (o berta maggiore), una sorta di piccolo gabbiano che, soprattutto di notte, si sente emettere un verso che ricorda il pianto di un neonato. Sono i compagni di Diomede che ancora ne piangono la scomparsa.
Oggi le Tremiti sono una riserva naturale marina che fa parte del Parco nazionale del Gargano dal 1989. L’isola maggiore per estensione è l’isola di San Domino, il centro amministrativo è sull’isola di San Nicola mentre il Cretaccio, Caprara e Pianosa sono disabitate. Sono isole ricoperte di vegetazione tipicamente mediterranea, pini di Aleppo, capperi e lentisco, con un mare incontaminato e ricco di fauna, meta preferita di subacquei e con una delle più belle immersioni dell’intero Mediterraneo nell’isola di Caprara, sulla secca di Punta Secca.

Sull’isola di San Nicola troviamo il cuore fortificato dell’arcipelago che occupa quasi la metà dell’intera isola. Dopo lo sbarco ci si arrampica su una stradina in forte pendenza che conduce alla prima porta dell’abitato dove sorgono le prime mura e una piazzole che ha ospitato anche una postazione contraerea durante la seconda guerra mondiale come testimoniato dalle opere in cemento e dalla blindatura di acciaio che riparava la postazione del mitragliere nello slargo di Punta Cannone. Poco più avanti troviamo alcuni bar e ristoranti e la casa comunale. Una salita a gradoni conduce al doppio ingresso dell’abbazia-fortezza di Santa Maria a Mare. Siamo nella parte più antica della costruzione, quella in cui è difficile separare storia e leggenda. Qui, sui resti di una villa romana,  sorse un piccolo santuario in onore della Vergine Maria che poi diventò meta di pellegrinaggio e quindi affidato alle cure di monaci benedettini nel secolo XI, cui seguirono i monaci cistercensi. Le mura massicce hanno protetto San Nicola da numerose scorribande e tentativi di assedio. Solo una volta è caduta quando nel 1321 una nave di pirati slavi, con uno stratagemma, riuscì ad attirare fuori i monaci per la celebrazione del funerale del loro capitano per poi trucidarli e depredare l’abbazia uccidendo quasi tutti gli isolani. Nel 1783 il re Ferdinando IV di Napoli soppresse l’abbazia e fece successivamente occupare l’isola da un nutrito gruppo si pescatori di Ischia e da alcune famiglie di mercanti della città di Napoli per cui, ancora oggi, si sente chiaramente l’influenza del napoletano nel dialetto degli abitanti delle Tremiti. Nel 1911, nella breve stagione coloniale del regno d’Italia, circa un migliaio di deportati libici furono confinati nell’isola. La maggior parte di essi morirono quasi subito per il diffondersi di malattie come  bronchiti, polmoniti e colera.

A perenne ricordo è stato eretto un cimitero libico nella parte più lontana dell’isola, accanto al cimitero dell’arcipelago. Ancora in epoca fascista furono numerosi i confinati politici ospitati nelle case di San Nicola e che di giorno erano forzati ai lavori agricoli nei campi di San Domino. Il più famoso di essi fu Sandro Pertini, presidente della Repubblica negli anni ’80, cui è dedicata la piazza principale dell’isola di San Domino. Trascurato da tempo, il complesso fortezza-abbazia è stato parzialmente restaurato: gran parte del perimetro esterno è visitabile e offre scorci mozzafiato sulle isole intorno, la facciata della chiesa è sostanzialmente integra e al suo interno ci sono varie porzioni di pavimentazione con tessere di mosaico. Nella chiesa è anche custodita una Madonna nera che viene portata in processione con le barche il giorno dell’Assunta.

Il porto dell’arcipelago si trova a San Domino, l’isola maggiore, a circa 200 metri dal piccolo approdo di San Nicola. E' dominato da un'altura su cui è stato collocato nel 2011 un guerriero acheo in bronzo (dono di Lucio Dalla) che simbolicamente protegge le isole e i suoi abitanti dai tentativi di speculazione e sfruttamento del mare, come nel caso delle perforazioni esplorative alla ricerca di gas e petrolio nelle acque del Gargano. Interamente coperta di macchia mediterranea e pini di Aleppo, ha una sola spiaggia di sabbia, cala delle Arene, accanto al porto, mentre per il resto la costa è composta da una lunga teoria di piccole calette rocciose e pareti scoscese su cui nidificano le diomedee. Ma l’isola cinquant’anni fa non si presentava così. A San Domino si praticava una stentata agricoltura e laddove oggi ci sono pini e piante selvatiche allora c’erano vitigni, meloni e pomodori. Una agricoltura difficile in un terreno roccioso e povero di acqua, mancando una fonte naturale ed eredità dei campi di lavoro dell’epoca borbonica e fascista.

Il porto di San Domino è piccolissimo e non ha posti destinati al transito. Esiste un campo boe gestito dall’Ente Parco ma, oltre ad essere sottodimensionato, è costantemente occupato dai gommoncini destinati al noleggio di proprietà degli isolani. Diventa così indispensabile trovare una zona di mare protetta per sostare sulla propria ancora o rassegnarsi ad andare verso Termoli o verso il Gargano per trascorrere la notte. Sull’isola ci si muove a piedi ma, nonostante le distanze siano brevi, occorre mettere in conto una certa dose di impegno fisico per la presenza di continui saliscendi e la ripidità di alcuni tratti. Dal porto al centro del paese occorrono circa 20 minuti (superata la salita iniziale poi diventa una piacevole passeggiata), per andare da un estremo all’altro si impiega oltre un’ora.

Interessante è la visita di Cala Matana, una delle calette raggiungibili a piedi, che ospita la villa che fu di Lucio Dalla (“sapesse che via vai di eredi che stanno venendo, anche quelli che lui non sapeva di avere”) e che dà il titolo ad una suo album (Luna Matana), fino a Cala degli Inglesi, che ospita due campeggi e a cui si arriva da un sentiero che parte dal centro del paese. In mare, poco distante da Punta del Vapore, verso ovest è possibile fare una nuotata con maschera e pinne e vedere i relitti, ormai dispersi su una superficie ampia, del Lombardo, una delle navi a vapore di Garibaldi durante la spedizione dei Mille che qui è naufragato nel 1864 dopo essere stato sbattuto ripetutamente sulla secca.

A Punta del Diavolo, all’estremità opposta rispetto al porto, c’è il faro di San Domino che il giorno 8 novembre del 1987 fu squarciato da una bomba. Nell’esplosione perse la vita uno dei due attentatori mentre l’altro, individuato e fermato dalla polizia, riuscì poi a sparire senza lasciare tracce. Misteriose furono e sono tuttora le ragioni di questo attentato. In effetti in quei mesi il dittatore libico Gheddafi a più riprese si rivolse all’Italia rivendicando le isole Tremiti come risarcimento per i crimini di guerra degli italiani nel 1911 e adducendo la presenza di popolazione di discendenza libica. Le autorità non presero neppure in considerazione l’eventualità e Gheddafi tentò addirittura una sorta di occupazione, spedendo sull’isola 846 presunti parenti dei libici deportati 70 anni prima, i quali furono fermati a Napoli e rispediti indietro per l’intervento di Giulio Andreotti. Fu quindi un attentato ordito dal colonnello Gheddafi o una mossa di servizi segreti esteri in funzione anti-libica, vista la nazionalità franco-libanese-svizzera degli attentatori?

Il modo migliore per visitare San Domino è una piccola barca con cui arrivare sotto costa e addentrarsi nelle numerose calette per fare il bagno. Numerosi sono i punti di interesse: la grotta delle Viole, il cui nome deriva dal colore delle alghe che ricoprono le sue pareti sommerse; la grotta del Bue Marino, profonda 70 metri e che deve il nome alle foche monache - ora scomparse - che la abitavano; lo scoglio dell'Elefante (nella foto); le tre "senghe", una caratteristica successione di 3 insenature; il piccolo architiello di San Domino, vicino al distributore di benzina (da non confondere con quello più imponente di Capraia) e i tre Pagliai, alti scogli a pochi metri dal porto verso Nord, le cui piccole spiaggette sono raggiungibili solo dal mare ma sono pericolose e sconsigliate per la friabilità delle rocce che le sovrastano.

Tra le due isole maggiori c’è il Cretaccio, che è poco più di uno scoglio e deve il nome alla creta giallastra che lo costituisce soprattutto nella parte centrale, costantemente erosa dalle acque e dal vento. Guardando alcune vecchie fotografia si scorge un isolotto che a fatica si fa coincidere con quello che oggi si vede. Negli ultimi anni la parte centrale è stata quasi totalmente consumata e nelle giornate ventose nuvole di polvere giallastra si agitano vorticose nelle acque antistanti il porto. Una leggenda macabra vuole che nelle notti di bufera il fantasma di un detenuto evaso dalla prigione di San Nicola si aggiri sull’isolotto reggendo la propria testa tra le mani e urlando per lo strazio della decapitazione avvenuta proprio su quest’isola dopo la ricattura.

L’altra grande isola, completamente disabitata, è Capraia, detta anche Capperaia per la diffusa presenza di piante di capperi. Tre sono i luoghi che calamitano l’interesse dei turisti: l’Architiello, reso celebre da una pubblicità dei Baci Perugina negli anni ’80, largo cinque metri e di poco più alto che racchiude un laghetto dalle acque di smeraldo; la statua sommersa di Padre Pio, alta ben tre metri, collocata nelle acque limpide e pulite della zona de “gli Scoglietti”, su un fondale di circa quindici metri e che può essere vista con facilità anche nuotando in superficie; Cala dei Turchi, un’ampia insenatura sul lato settentrionale in cui ancorarono le navi di Solimano II nel 1566 quando questi tentò invano di conquistare l’abbazia, cannoneggiandola per tre giorni prima di desistere e continuare le sue incursioni altrove.
Distante circa 12 miglia dalle altre isole, Pianosa è una piana rocciosa completamente disabitata. La sua altezza massima è 15 metri e durante le mareggiate non è inconsueto che le onde la scavalchino completamente. È riserva integrale: questo significa che, nel limite di 500 metri dalla costa, è vietato tutto (approdo, navigazione, pesca). È possibile fare immersioni se accompagnati da guide subacquee autorizzate.

Negli ultimi decenni, l'amministrazione delle isole sta cercando la strada per la valorizzazione ed il suo sviluppo turistico. È uno dei luoghi più belli e incontaminati dei nostri mari, uno dei luoghi ancora selvaggi e per questo meritevoli di grandi cure e attenzione. Se fossimo saggi.

lunedì 4 giugno 2018

Un'auto da mare


C’erano una volta 3 fratelli - Marco, Fabio e Mauro Amoretti - e un amico - Marcolino - che decisero di attraversare l’Atlantico.
I motivi alla base di un’avventura del genere sono sempre tanti: l’allergia alla normalità, la voglia di fare qualcosa di eclatante, una scommessa con se stessi. Non avevano una barca ma decisero di provarci lo stesso. In auto.
A dire il vero l’idea era venuta fuori dall’immaginazione di Giorgio Amoretti, il padre dei tre, che nel 1978 era partito con un maggiolino reso stagno e imbottito di polistirolo ma fu fermato dalla guardia costiera spagnola. 
Nel 1999 i quattro amici mettono in acqua una Volkswagen Passat e una Ford Taunus e partono da Las Palmas facendo rotta sulla Martinica. Dopo i primi dieci giorni Fabio e Mauro, forse i meno convinti, chiedono aiuto e vengono recuperati da un elicottero di soccorso mentre Marco e Marcolino proseguono la loro “strada”. Restano in mare circa 120 giorni tra nuotate, lunghe letture e battute di pesca in mezzo all’oceano: incontrano una petroliera che li rifornisce di provviste (non benzina, navigano a vela) e alla fine riescono a parcheggiare la loro auto-barca alle Antille. 
Ma la storia continua e una mattina di giugno 2015 ritroviamo Marco Amoretti, da solo stavolta, al volante di una Maserati Biturbo del 1980 che naviga placidamente nel golfo di La Spezia spinto da un fuoribordo Mercury da 15 cv.
Anche stavolta l’idea è quella di farsi un giro lungo e provare a parcheggiare dalle parti di Piazza San Marco, a Venezia. La Maserati vola a 12 chilometri all’ora sulle acque della Versilia, fa tappa a Pisa risalendo l’Arno per un pezzo e poi naviga verso Roma.
Una volta giunto nel Tevere i vigili del fuoco lo fermano a Ponte Sant’Angelo: è un’auto e quindi chiamano la Polizia Stradale. Però la macchina è in acqua e naviga e quindi i poliziotti chiamano la Capitaneria. Alla fine si conviene che la macchina non è un natante ma un’unità sperimentale ad uso personale e che non sarà immessa sul mercato e dunque non necessita di titoli autorizzativi da parte dell’autorità marittima.
Intervistato dai giornali sul senso della sua avventura Marco Amoretti dichiara: ”Non sono e non voglio essere un Soldini, sono più un Don Chisciotte, o meglio come Pippi Calzelunghe”. E come lei, in effetti, le dice e le fa sempre più grosse e divertenti. Può proseguire ma ora è necessario fermarsi e l’auto finisce per sei mesi in un museo/deposito sulla Prenestina. Riesce a tornare in acqua e riprende la circumnavigazione: a Panarea viene salutato come un novello Ulisse, mentre poco prima di Ravenna una lamiera finisce nell’elica e deve tornare a fermarsi.
L’automare, come la definisce Amoretti, costeggia l’Adriatico e finalmente, dopo 4.000 chilometri e quasi 600 giorni, arriva a Venezia.  L'obiettivo di quest'anno è la risalita del Po fino a Milano ma l’auto è da sistemare ed è in atto una raccolta di fondi per proseguire nel progetto.
Sulla loro pagina Facebook ci sono i link per le donazioni. Certo, da Venezia a Milano una Maserati ci potrebbe arrivare in un paio di ore al massimo, ma vuoi mettere lo sfizio di ormeggiarla ai Navigli porgendo la cima ad un passante?


venerdì 6 ottobre 2017

Da Pozzuoli all'isola che non c'é


Per chi proviene da Napoli, prima di arrivare al porto di Pozzuoli, se si alza lo sguardo, spicca  la sagoma dell’Accademia Aeronautica, il "Nido delle Aquile", dove iniziano a formarsi i piloti militari, un edificio cubico che si affaccia dalla collina di tufo e che, con una certa  approssimazione, indica il Nord. A circa 300 metri sulla sinistra, sempre guardando dal mare c’è il cratere della Solfatara, in cui  si manifestano potenti fumarole che emettono vapori sulfurei ad oltre 160 °C, mentre in una depressione centrale della caldera si può osservare del fango che bolle a 140 °C. In questa bocca del vulcano vennero girati alcuni famosi film di Totò  e alcune sequenze del film dei Pink Floyd “Live in Pompeii”.
Poi si arriva a Pozzuoli. In origine era uno scalo commerciale cumano, la città vera e propria fu fondata nel 528 a.C. e solo trecento anni dopo, nel 194 a.C., divenne una colonia romana. Da quel momento la sua importanza crebbe sempre più, poiché i romani ne fecero il loro porto principale. La collegarono con un'ottima rete stradale all'Urbe e alle città più importanti della Campania, mentre tutte le più fiorenti città marittime dell'Oriente vi stabilirono stazioni commerciali. Furono costruiti monumenti eccezionali come l'Anfiteatro Flavio, il Tempio di Serapide (in realtà un antico mercato e il Tempio di Augusto.
Il graduale sprofondamento del litorale, causato dal bradisismo, costrinse gli abitanti a lasciare, verso la fine del V secolo, la parte bassa della città e a stabilirsi sull'altura a destra del porto commerciale, l’attuale Rione Terra, ben visibile dal mare con edifici dai colori vivi e ancora qualche gru che emerge dal profilo. Agli inizi del XVI secolo, Pozzuoli fu sconvolta da scosse telluriche e dal bradisismo. I puteolani tornarono a stabilirsi al di fuori delle mura, sino a formare presso il mare un borgo, costituito da piccole case di pescatori. Infatti nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1538, un terremoto sconvolse la città, la terra si aprì ed eruttò tanto materiale da formare una collinetta, che in seguito fu chiamata Monte Nuovo. Guardando il porto è la zona sulla sinistra, un po’ all’interno, ricca di verde e che oggi è un’oasi del WWF.
Durante la Seconda guerra mondiale la città fu presa di mira dai bombardamenti alleati a causa del porto, dove andavano a rifornirsi le navi da guerra, e dello stabilimento Sofer, allora convertito alla produzione di artiglieria.
Il Rione Terra è stato abbandonato a seguito dei moti bradisismici degli anni settanta.  È possibile visitare gran parte dei sotterranei e una parte in superficie.
La città è composta interamente da questo intreccio di vecchio e nuovo e, passeggiando, non è raro trovare tra i palazzi ricostruiti dopo il conflitto mondiale alcune bellissime strutture antiche.
Lungo la costa, andando ancora ad Ovest, dopo il porto spicca il pontile della Sofer, fabbrica dell’Ansaldo, a lungo uno dei motori dell’economia della città. Qui sono stati costruiti treni e vagoni ferroviari fino agli anni ’80. Da allora il declino e l’abbandono. Numerosi progetti di riqualificazione si sono avvicendati negli anni ma la zona è ancora tutta una cantiere. Si tratta di un lungo tratto di costa in uno scenario fantastico che non sembra avere fortuna. Poco discosto il pontile della Pirelli, oggi Prysmian, che costruisce cavi elettrici sottomarini.
Questa zona è detta Arco Felice, nome che viene dato da un monumentale arco in laterizi di epoca romana, sito all’interno, costruito nel taglio che i romani effettuarono nella collina, attraverso il quale l'antica via Domiziana entrava  nell'abitato di Cuma. Ancora oggi la strada è utilizzata e un piccolo tratto di strada, di circa 50 metri, è ancora quello originale.
Lucrino
Inizia qui un tratto di costa sabbiosa che termina a Punta Epitaffio. Alle spalle della spiaggia sulla destra si staglia il monte Nuovo, prodotto di un’eruzione nel 1538,  mentre al centro sono visibili ben due laghi in successione, il lago Lucrino e il lago d’Averno.
Il lago Lucrino è alimentato dalle acque di numerose sorgenti termali che sono in zona (le stufe di Nerone le più conosciute) ed è un bacino privato. Deve il nome alla parola “lucrum”, cioè lucrare: infatti il senatore Sergio Orata nell'antica Roma lo aveva trasformato in un allevamento ittico, essendo lo stesso lago in comunicazione tramite un canale con il mare.
Nel 37 a.C. il lago d'Averno ed il lago Lucrino furono collegati al mare attraverso un canale artificiale per la realizzazione di un colossale porto militare (Portus Julius).
Il lago d'Averno era molto famoso nell'antichità perché lo si credeva la porta degli Inferi. Il carattere austero e quasi tenebroso del luogo, il colore delle acque scaturite dal fondo di un vecchio cratere, dense e limacciose, la presenza di una fonte termale lungo la riva del lago considerata come acqua della Stige, e il ricordo di antiche esalazioni che ammorbavano l'aria e rendevano impossibile il volo degli uccelli, avevano circondato questo luogo di misteriose e paurose leggende e fatto collocare da Virgilio proprio qui la porta dell'Ade.
Attualmente anche il lago d’Averno è di proprietà privata pur essendo ricco di storia e di reperti archeologici di notevole interesse.
Baia
Continuando a navigare lungo la costa troviamo Baia, luogo di soggiorno prediletto dell'aristocrazia romana e di diversi imperatori, che qui venivano a ritemprarsi dalle fatiche dell’impero e vi edificarono lussuose ville e numerosi impianti termali, le cui sale monumentali a cupola ancora oggi visibili sono i cosiddetti tempi di Mercurio, di Venere e di Diana.
Il suo golfo, racchiuso tra i rilievi di Punta Lanterna a sud, su cui è ben visibile il Castello Aragonese, e Punta Epitaffio a nord, è un altro  cratere vulcanico, risalente a circa 8.400 anni fa e conservatosi solo per metà, essendo la sua parte ad oriente sprofondata o del tutto erosa dal mare.
Attualmente l'antica Baia è parzialmente sommersa a causa del bradisismo: di recente, per tutelare i resti dell'antico porto, l'area delimitata dalle boe gialle  è stata dichiarata area marina protetta ed è stato istituito il Parco sommerso di Baia. Mosaici, tracce di affreschi, sculture, tracciati stradali e colonne, sono sommersi a circa 5 metri sotto il livello del mare tra anemoni stelle marine e branchi di castagnole. Il luogo è straordinariamente suggestivo e qui sembra proprio di osservare una sorta di Atlantide di età romana.
Su un promontorio a strapiombo sul mare, presso l'abitato, sorge l'imponente Castello Aragonese, costruito forse sulle rovine del Palazzo imperiale romano. All'interno del castello è ospitato il Museo archeologico dei Campi Flegrei. È visibile la ricostruzione del ninfeo rinvenuto nelle acque di Punta Epitaffio con la raffigurazione dell'episodio omerico di Ulisse che, aiutato da un compagno, porge il vino al Ciclope.
 
Miseno
Dopo il comune di Bacoli vi è l'antica Misenum, villaggio sorto in epoca romana, sede della flotta pretoria dell'imperatore. La spiaggia di Miliscola a tutt'oggi conserva nel suo nome il ricordo degli allenamenti che vi svolgevano i marinai romani (militum schola). L'attuale frazione di Miseno è posta ai piedi del promontorio di Capo Miseno che rappresenta l'ultima lingua di terraferma che racchiude il golfo di Pozzuoli, punta estrema del Golfo di Napoli.
Capo Miseno è un'altura che offre una splendida vista sul golfo di Napoli e sulle isole di Ischia e Procida, ben riconoscibile in tutto il golfo di Pozzuoli, che racchiude verso occidente. È sede di un faro molto importante per la navigazione costiera notturna. Il luogo, splendido e suggestivo, è stato interessato negli anni da fenomeni edilizi che hanno deturpato la bellezza originaria. Da lontano si riconosce per la sua caratteristica forma a tronco di cono.
Poco prima del Capo, sulla cui sommità ci sono numerose casematte e fortificazioni che risalgono alla II guerra mondiale, c'è l'accesso all'antico porto di Miseno chiuso dal lungo isolotto ricurvo di Punta Pennata, la vera isola che non c'è. Un tempo staccata dalla terraferma ma oggi praticamente unita, dopo una violentissima mareggiata negli anni '70 e il successivo bradisismo, all'abitato di Bacoli. Ospita un ristorante raggiungibile con una piccola barchetta.
Il nome di Miseno si collega all'Eneide di Virgilio. Miseno era il trombettiere di Enea, che avendo sfidato Tritone nel suono della tromba, era stato da questi precipitato in mare dove era annegato. Enea, trovato il suo corpo gettato dalle onde sulla spiaggia, lo seppellisce sotto un immenso tumulo, appunto Capo Miseno,  grandiosa tomba a perenne memoria del compagno.

Una semi-isola, il filo dell’acqua e l’isola dei genovesi

C’è un angolo di Sardegna che conserva un carattere e una personalità fuori dall’ordinario. Lontano dagli usuali giri turistici, lontano...