lunedì 25 settembre 2017

Una semi-isola, il filo dell’acqua e l’isola dei genovesi


C’è un angolo di Sardegna che conserva un carattere e una personalità fuori dall’ordinario. Lontano dagli usuali giri turistici, lontano dalle notti roboanti dalla Costa Smeralda, dai trenini dei turisti di Stintino, giù nel Sud-Est, in una terra conosciuta soprattutto per le estrazioni minerarie e per la chimica, nello spazio di un pugno di miglia marine ci sono due isole che bisogna vedere almeno una volta nella vita.

Sant’Antioco è un'isola collegata al resto della Sardegna da un istmo spettacolare e pieno di vento che da un lato fornisce asilo e riparo per la nidificazione dei fenicotteri rosa e dall’altro ospita carovane di kiters che, con il vento teso e l’acqua bassa di Punta Trettu, si divertono in infinite evoluzioni a velocità supersoniche. Poco prima di arrivare sull’isola sono chiaramente visibili i resti di un ponte di epoca romana che testimonia la lunga storia di quest’isola che risulta abitata da tempi antichi, con numerosi nuraghe sparsi lungo le sue coste.

Il maestrale che soffia quasi incessantemente ha modellato la sua baia interna rendendola quasi inadatta alla navigazione di barche con un qualche pescaggio e con canali segnalati da boe per andare verso Punta Trettu. Quel che non ha fatto il vento lo ha poi completato l’uomo negli anni ’70, andando a disperdere in questa zona gli scarti delle fabbriche di Portovesme. Oggi queste acque sono una palestra perfetta per la pratica del kitesurf a tutti i livelli ed è possibile soggiornare sia nel campeggio sulla spiaggia che nei vari B&B che negli ultimi tempi sono sorti nella zona. 
Restano intatte e magnifiche le spiagge della parte meridionale dell'isola (Maladroxia, Coacuaddus) e le tante cale presenti nella parte occidentale. L’acqua è cristallina e con pinne e maschera ci si può regalare la visione di paesaggi subacquei di notevole bellezza.
 
Ma uno dei motivi di maggiore fascino di Sant’Antioco è la filatura del bisso, la seta del mare. Il bisso è una fibra tessile marina che si ottiene dai filamenti secreti dalla Pinna Nobilis, la nacchera, una sorta di cozza gigante che vive nel Mediterraneo e che può raggiungere la dimensione di un metro di altezza. Vive con la parte appuntita fissata nella sabbia e completa il suo ancoraggio con l’emissione di una sostanza gelatinosa che, al contatto con l’acqua, si solidifica e diventa un filamento piuttosto robusto.

La tessitura del bisso non è una questione soltanto artigianale, è qualcosa di più. Lo si capisce parlando con Chiara Vigo, l’ultima maestra del bisso, erede di una tradizione familiare che risale ad oltre 23 generazioni e che in realtà si perde nel tempo. Di esso si parla anche nella Bibbia, è il tessuto degli abiti di re, papi e faraoni, è impalpabile, è cangiante con colori che vanno dal bruno all’oro splendente e sembra non avere sostanza, una sorta di miraggio.

Il bisso non ha prezzo” - dice Chiara con estrema determinazione “il bisso non si compra e non si vende. Il bisso è di tutti e può soltanto essere regalato”. Mentre mostra la trasformazione dei batuffoli di fibra in un filo utilizzabile per i suoi ricami, Chiara canta e sussurra parole che sembrano provenire da profondità della memoria a noi inaccessibili, danza e muove le mani ad un suo tempo interiore: sceglie i filamenti, li unisce, li bagna in una soluzione di acqua di mare, limone e altro che - con un sorriso - non ci dice e poi soffia, unendo al tessuto il suo respiro come per dargli vita, canticchia e poi con il fuso comincia a creare un filo che lentamente, magicamente, si allunga fino a prendere una certa consistenza. Dopo un po’ lo stacca dal fuso e ce lo mostra. Ognuno ad occhi chiusi lo riceve sul palmo della mano e lo espone alla luce, cercando di penetrare i suoi segreti o, più semplicemente, stupendosi di un oggetto così semplice e così raro.

Chiara Vigo è l’ultima custode di un’arte millenaria che viene tramandata da un maestro al proprio allievo. Lei ha ricevuto dalla nonna il suo lascito millenario e nelle sue mani ha prestato il giuramento dell’acqua che ci ripete facendoci rabbrividire per la solennità e la convinzione con cui pronuncia ogni singola parola. Chiara racconta di aver studiato approfonditamente la Pinna Nobilis e di aver deciso di prelevare la fibra senza nuocere all’animale. Anticamente si prelevava l’intero filamento, ma questo provocava immancabilmente la morte dell’animale. Lei riesce a praticare un taglio soltanto sugli ultimi 5 centimetri di filamento e soltanto sugli esemplari adulti, cogliendo il duplice obiettivo di preservare una specie a rischio e mantenere in vita gli animali che le forniscono il materiale essenziale alla sua arte.

Il prelevamento della fibra avviene nella tarda primavera. Chiara si immerge da sola, in apnea nelle acque dell’isola e in posti che non rivela a nessuno.  È facile immaginarla in una calda alba di maggio, magari con indosso una tunica cerimoniale, rivolgere misteriose parole al cielo per poi immergersi per con il suo piccolo bisturi e andare a prendere la fibra da tessere. Una volta portato a terra il bisso, dopo una prima pulitura, il bisso viene sottoposto ad una lunga dissalatura e poi ad una nuova pulitura con un cardo di piccole dimensioni.  Infine la fase della filatura a mano di cui ci ha dato prima dimostrazione. Con circa 200 immersioni riesce ad ottenere 300 g di filamento che renderanno alla cardatura finale il 10% di fibra pulita. Con queste modeste quantità di filo le occorrono dai 2 ai 5 anni per realizzare un pezzo finito.

Lo spazio in cui ci racconta tutto questo è un’ambiente della sua casa che ha allestito come un piccolo “Museo del Bisso”, visto che quello comunale è chiuso e non si sa quando e se riaprirà. Ci sono i lavori di una vita, come la cravatta interamente di bisso intessuta per il marito e indossata il giorno delle nozze, o arazzi con simboli della tradizione isolana come “Il leone delle donne” intessuto dalla nonna, foto di opere esposte al Louvre, al British Museum o date in comodato ad altri musei italiani. 

L’abitato di Sant’Antioco è molto più grande di quanto ci si possa aspettare, una cittadina che ben assortisce antico e moderno, con un corso principale ben alberato e ricco di attività commerciali.

Proseguendo verso Nord, alla fine di una lunga strada circondata da vigneti che si addentra nell’isola, c’è il paesino di Calasetta, un centro balneare, con tantissime piccole casette e un porticciolo da cui partono sia escursioni giornaliere che un traghetto per Carloforte, molto ventoso e dove si parla un dialetto ligure come nella vicina isola di San Pietro, la seconda dell’arcipelago del Sulcis.

L’isola di San Pietro, che in molti chiamano Carloforte, che è invece il nome della cittadina che sorge sottovento, è stata a lungo disabitata e venne colonizzata nel 1738 da un numeroso gruppo di pescatori e commercianti genovesi. Essi abbandonarono l’isola tunisina di Tabarka, che avevano in concessione da oltre due secoli, per le continue vessazioni dei vari rais della costa nord africana. Ottennero da Carlo Emanuele III il permesso di insediarsi nell’isola detta “degli sparvieri  e ne iniziarono la bonifica, trasformando le paludi in saline, e fortificando l’abitato cui appunto venne dato il nome di Carloforte (Forte di Carlo).

Oggi il paese è un intrico di viuzze e vicoletti che si inerpicano su un leggero pendio, con un bel porticciolo, adatto anche alle barche a vela, e alcune torri di avvistamento e bastioni difensivi, ricco di piccole abitazioni colorate e nota per la pesca del tonno. Molto sentita è la festa di san Pietro, il 29 giugno, protettore di corallari e tonnarotti, le due storiche attività economiche dell’isola. Gli abitanti dell’isola conservano intatto il dialetto dei loro avi liguri, anzi, per la precisione di Pegli, un quartiere del comune di Genova, che localmente è detto tabarchino.

Il mare è parte essenziale della vita quotidiana dei carlofortini ed accedervi non è sempre facile, data la costa frastagliata ma interrotta qui e là da insenature: Cala Vinagra a nord, Cala Fico,  a sud la spiaggia de “la Bobba” e “le Colonne”, due faraglioni che emergono dall’acqua e che sono diventati il simbolo dell’isola.

Sbarcando nella vicina Portoscuso, a pochi minuti di traghetto se il mare lo consente, restano negli occhi i colori di queste due isole bellissime e resta la malinconia di serate al fresco passate a discutere di vele, di vento e di aria pulita. 

1 commento:

Oretta ha detto...

Letto solo oggi. Ben scritto. Conosco bene la Sardegna. Ma avrei detto che quella zona si trova a sud ovest.
Oretta

Una semi-isola, il filo dell’acqua e l’isola dei genovesi

C’è un angolo di Sardegna che conserva un carattere e una personalità fuori dall’ordinario. Lontano dagli usuali giri turistici, lontano...