Cinquemila persone. M dicono che siamo cinquemila. Quello che so per certo è che a malapena si intravede la partenza. Aspettiamo su Viale Kennedy, un lungo rettilineo contornato dai platani, e cerchiamo di non far raffreddare le gambe nell’ attesa.
Allo sparo non succede niente. Immagino che gli
atleti élite, quelli in prima fila, siano partiti come missili, ma loro corrono
a tre minuti al chilometro e fanno letteralmente un’altra gara. Saprò di loro
all’arrivo o direttamente dal Tg stasera. Corrono per arrivare primi, noi corriamo
per sentirci vivi.
Noi, i runner dell’ultima fila, un po’ come i
loggionisti nella lirica, cominciamo a camminare dopo quasi cinque minuti. La
linea di partenza resta ancora distante e siamo ancora troppo compatti per
correre. Avvio il GPS e metto il cellulare nel marsupio. Finalmente la linea.
Mi guardo intorno e vedo che facciamo tutti lo stesso gesto: avviamo il
cronometro, uno sguardo intorno e si comincia.
Di fronte il Politecnico, ancora bello e
originale a dispetto dell’età. Pochi respiri e lasciamo lo stadio sulla
sinistra. In pratica è come se l’intera curva A stesse partecipando a questa
gara. C’è un fiume di persone che corre, nel silenzio si sente il rumore delle
scarpette che battono sull’asfalto. Qualcuno urla per scaricare l’emozione e
farsi coraggio. Si canta e si corre.
Su Via Giulio Cesare finisce il primo chilometro
e, poco dopo lo Sferisterio il secondo. Già, lo Sferisterio, uno dei misteri
irrisolti di questa città: ospitava la pelota basca, poi è stato una sala per
concerti e poi è stato bruciato. Saranno passati all’incirca quarant’anni e
resta ancora lì, in tutta la sua compiuta indeterminazione.
Prima galleria e lascio andare le gambe: ora è
in discesa e ne approfitto per guadagnare qualche secondo. Al ritorno ci sarà
da penare. Cerco di rilassare le spalle e respiro “con la pancia”. Mi porta la
strada e devo solo assecondare. A Piazza Sannazzaro si ricomincia in piano.
Ci sono alcuni concorrenti che spingono
carrozzelle e vedo anche alcuni runner con protesi o evidenti problemi motori.
Ci vuole un grande amore e una enorme forza per correre così e il mio rispetto
per loro è infinito. Mi scosto e li lascio andare.
Via Caracciolo è grigia stamattina, il ritmo è
quello previsto in allenamento. Non c’è niente da improvvisare in una corsa
lunga. Quello che hai fatto nell’ultimo mese è esattamente quello che potrai
fare. La strada restituisce solo quello che hai dato. I chilometri diventano
quattro e si arriva a Via Partenope, dopo aver corso tra la Villa Comunale e il
mare. Adesso di fronte si vedono il Vesuvio e il Castel dell’Ovo.
C’è il primo ristoro. Prendo l’acqua e il gel che ho portato
da casa. Un paio di sorsi e riprendo pian piano il ritmo. Prima mezz’ora
andata.
Discesa veloce su Via Acton e poi, dopo la darsena, si prosegue su Via Marina costeggiando il porto. La strada è larga e si corre bene. Si cominciano a vedere i primi che incrociano in senso inverso. Nel tempo che noi abbiamo impiegato per fare sei chilometri loro ne hanno percorsi quindici e questo fa tutta la differenza del mondo. Un po’ di invidia ma nemmeno troppa. In me prevale lo stupore.
Intanto noto che Napoli senza le auto,
soprattutto qui al centro, è davvero insolita. Sarò passato di qui migliaia di
volte ma così, di corsa e senza macchine, diventa un’esperienza quasi
spirituale. O forse è la mia testa che vuole più ossigeno. Ricomincio la
respirazione diaframmatica e controllo la mia corsa. Spingo con le braccia e di
tanto in tanto anche con i polpacci. Sto recuperando qualche secondo sulla
velocità.
Arrivo e supero l’incrocio con Via Duomo. I
chilometri aumentano e anche la stanchezza.
Al Ponte della Maddalena il secondo ristoro: prendo
l’acqua e cammino qualche decina di metri per bere senza versarmi tutto
addosso.
Questa strada è decisamente brutta, eppure
proprio da queste parti si sono verificati eventi davvero notevoli nei secoli
scorsi. Nel 1631, durante una delle più violente eruzioni del Vesuvio, fu
portata in processione fin qui la statua di San Gennaro per scongiurare che la
lava entrasse in città. Il Santo fece il miracolo e la lava si fermò proprio
sul confine con la vicina San Giorgio a Cremano. Nel 1799. Anno della
Rivoluzione napoletana, proprio qui le truppe monarchiche del Cardinale Ruffo
vinsero la resistenza delle armate repubblicane ed entrarono in città ponendo
fine all’esperienza della Repubblica partenopea. Dell’antico ponte a cinque
archi che segnava l’ingresso orientale in città ora non resta più nulla.
Torno su Via Marina dove c’è il traguardo dei
dieci chilometri e il primo controllo cronometrico.
All’incrocio con Corso Arnaldo Lucci c’è
l’installazione di Bianco e Valente “nessuno escluso”, una scritta rossa
montata su un’intelaiatura circolare. Da tre anni è lì, come simbolo di
accoglienza e di tolleranza, e chissà quante discussioni genera nelle auto che
ogni giorno percorrono la strada. Del resto, non è proprio questa la funzione
dell’arte?
È passata oltre un’ora di gara. Forse un’ora e
dieci. Siamo a metà mentre a Fuorigrotta staranno già applaudendo i primi, sia
tra gli uomini che tra le donne. Ma la nostra corsa è un’altra. Per me la sfida
è con me stesso. Voglio farcela, migliorare il risultato dell’anno scorso,
imparare a gestire i muscoli che mi fanno male, i crampi, il tempo che passa,
il respiro che comincia ad accorciarsi.
Via Marina al ritorno sembra più lunga. In
lontananza vedo che dobbiamo girare a destra e passiamo per Piazza Borsa e poi
il Rettifilo. Anche qui correre dove passano milioni di macchine ogni giorno è
surreale. Si vede qualche automobilista nervoso che vorrebbe passare lo stesso
e qualche vigile, altrettanto nervoso che glielo impedisce. Proprio non capisco
perché per un giorno all’anno, e di domenica mattina, non si riesca a fare a
meno dell’automobile. Saluto con la mano e vado avanti. Giriamo per tornare
indietro, passiamo l’ultimo traguardo intermedio, ci muoviamo verso l’Università.
Intorno a me vedo che anche gli altri stanno
cominciando a sentire la fatica. Qualcuno si ingobbisce per lo sforzo, qualcuno
cammina.
Siamo all’incrocio con Via Mezzocannone. Il nome
di questa strada mi è sempre piaciuto. Pare che derivi da una fontana che
serviva all’abbeveramento dei cavalli con un tubo di portata molto corto
(appunto mezzo cannone). Ecco, a questo punto anche io mi sento a mezzo
servizio. Siamo a quattordici chilometri e torniamo su Piazza Municipio.
La piazza è bella, lineare, minimalista. Forse
sono uno dei pochi napoletani a pensarlo ma a me piace molto. Una piazza di
pietra, come piazza Duomo a Milano, enorme e squadrata. Il progetto è di
Alvaro Siza che si è dovuto adattare, nei tempi e negli spazi, ai numerosi
ritrovamenti. Sotto c’è la metro (che non porta a Fuorigrotta altrimenti un
pensierino ce lo farei) ma, soprattutto, c’è una leggerissima discesa che mi
permette di accelerare.
Si svolta a destra, ancora Via Marina, passando
sotto il Maschio Angioino, ultimo ristoro al quindicesimo chilometro, e poi
nella galleria della Vittoria. Ci sono voluti otto anni ma alla fine questa
l’hanno completata e riaperta. L’odore è terribile ma c’è di buono che dopo
pochi minuti siamo a Piazza Vittoria e di nuovo a Via Caracciolo.
Sta cadendo qualche goccia di pioggia. Mi piace correre sotto l’acqua ma ora non è il caso di esagerare. Siamo anche controvento e la temperatura scende. Qualcuno si veste e compaiono impermeabili e magliette. Finora ho avuto caldo, ora invece sto bene e, sia pure con qualche pausa di troppo, riesco ancora ad andare. Due ore di corsa. Sul traguardo di Viale Kennedy ora starà passando il gruppone. Per noi invece non è un momento facile.
Sedici chilometri. Siamo arrivati ma non siamo
arrivati.
Devo riprendere a spingere. Inclino leggermente
il busto e guardo avanti. I piedi spingono insieme alle braccia. Provo a
rilassare le spalle e le mani e a sorridere. Non perché sia particolarmente
felice, ma qualcuno dice che così si contraggono meno muscoli e quindi serve
meno energia.
Non conosco nessuno che sia contento di far
fatica, quello che ti muove è la voglia di arrivare, di raggiungere il
traguardo. I primi ormai saranno già in albergo, magari sotto la doccia con la
medaglia al collo, come fa qualcuno; per me c’è ancora da correre.
Dopo un paio di chilometri sono di nuovo a
Piazza Sannazzaro. Adesso la salita. La galleria Laziale, facile e veloce
all’andata, ora, dal lato sbagliato, mostra tutta la sua pendenza. Rallento, mi
inclino in avanti e inizio la risalita. Dopo 1450 passi sono fuori. Mancano
solo due chilometri e 97 metri.
Via Giulio Cesare è un interminabile nastro che
mi riporta a Piazzale Tecchio e poi, finalmente, gli ultimi 97 metri. Vorrei
camminare, i muscoli urlano, mi fa male la schiena, ora mi vengono i crampi, ho
sete, ma dove cazzo sta il traguardo, guarda c’è il fotografo, ridi che ti
stanchi di meno, ancora un po’, qualcuno mi incita, qualcuno applaude per
solidarietà, qualcuno per sbaglio.
Eccola là. La linea di arrivo. È l’unica cosa
che voglio. Ora sono contento e sorrido davvero.
Lo speaker dice il mio nome.
Sorrido.
Il traguardo.
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