C’è un angolo di
Sardegna che conserva un carattere e una personalità fuori dall’ordinario.
Lontano dagli usuali giri turistici, lontano dalle notti roboanti dalla Costa
Smeralda, dai trenini dei turisti di Stintino, giù nel Sud-Est, in una terra
conosciuta soprattutto per le estrazioni minerarie e per la chimica, nello
spazio di un pugno di miglia marine ci sono due isole che bisogna vedere
almeno una volta nella vita.
Sant’Antioco è
un'isola collegata al resto della Sardegna da un istmo spettacolare e
pieno di vento che da un lato fornisce asilo e riparo per la nidificazione dei
fenicotteri rosa e dall’altro ospita carovane di kiters che, con il vento teso
e l’acqua bassa di Punta Trettu, si divertono in infinite evoluzioni a velocità
supersoniche. Poco prima di arrivare sull’isola sono chiaramente visibili i
resti di un ponte di epoca romana che testimonia la lunga storia di
quest’isola che risulta abitata da tempi antichi, con numerosi nuraghe sparsi
lungo le sue coste.
Il maestrale che
soffia quasi incessantemente ha modellato la sua baia interna rendendola quasi inadatta
alla navigazione di barche con un qualche pescaggio e con
canali segnalati da boe per andare verso Punta Trettu. Quel che non ha fatto il
vento lo ha poi completato l’uomo negli anni ’70, andando a disperdere in
questa zona gli scarti delle fabbriche di Portovesme. Oggi queste acque sono una palestra perfetta per la pratica del kitesurf a tutti i livelli ed è possibile soggiornare sia nel campeggio sulla spiaggia che nei vari B&B che negli ultimi tempi sono sorti nella zona.
Restano intatte e magnifiche le spiagge della parte meridionale dell'isola (Maladroxia, Coacuaddus) e le tante cale presenti nella parte occidentale. L’acqua è cristallina e con pinne e maschera ci si può regalare la visione di paesaggi subacquei di notevole bellezza.
Restano intatte e magnifiche le spiagge della parte meridionale dell'isola (Maladroxia, Coacuaddus) e le tante cale presenti nella parte occidentale. L’acqua è cristallina e con pinne e maschera ci si può regalare la visione di paesaggi subacquei di notevole bellezza.
Ma uno dei motivi
di maggiore fascino di Sant’Antioco è la filatura del bisso, la seta del mare. Il bisso è una
fibra tessile marina che si ottiene dai filamenti secreti dalla Pinna Nobilis,
la nacchera, una sorta di cozza gigante che vive nel Mediterraneo e che può
raggiungere la dimensione di un metro di altezza. Vive con la parte appuntita
fissata nella sabbia e completa il suo ancoraggio con l’emissione di una
sostanza gelatinosa che, al contatto con l’acqua, si solidifica e diventa un
filamento piuttosto robusto.
La tessitura del
bisso non è una questione soltanto artigianale, è qualcosa di più. Lo si
capisce parlando con Chiara Vigo, l’ultima maestra del bisso, erede di una
tradizione familiare che risale ad oltre 23 generazioni e che in realtà si
perde nel tempo. Di esso si parla anche nella Bibbia, è il tessuto degli abiti
di re, papi e faraoni, è impalpabile, è cangiante con colori che vanno dal
bruno all’oro splendente e sembra non avere sostanza, una sorta di miraggio.
“Il bisso non ha
prezzo” - dice Chiara con estrema determinazione “il bisso non si compra e non
si vende. Il bisso è di tutti e può soltanto essere regalato”. Mentre mostra la
trasformazione dei batuffoli di fibra in un filo utilizzabile per i suoi
ricami, Chiara canta e sussurra parole che sembrano provenire da profondità
della memoria a noi inaccessibili, danza e muove le mani ad un suo tempo
interiore: sceglie i filamenti, li unisce, li bagna in una soluzione di acqua
di mare, limone e altro che - con un sorriso - non ci dice e poi soffia, unendo
al tessuto il suo respiro come per dargli vita, canticchia e poi con il fuso
comincia a creare un filo che lentamente, magicamente, si allunga fino a
prendere una certa consistenza. Dopo un po’ lo stacca dal fuso e ce lo mostra.
Ognuno ad occhi chiusi lo riceve sul palmo della mano e lo espone alla luce,
cercando di penetrare i suoi segreti o, più semplicemente, stupendosi di un
oggetto così semplice e così raro.
Chiara Vigo è
l’ultima custode di un’arte millenaria che viene
tramandata da un maestro al proprio allievo. Lei ha ricevuto dalla nonna il suo
lascito millenario e nelle sue mani ha prestato il giuramento dell’acqua che ci
ripete facendoci rabbrividire per la solennità e la convinzione con cui
pronuncia ogni singola parola. Chiara racconta di aver studiato approfonditamente la
Pinna Nobilis e di aver deciso di prelevare la fibra senza nuocere all’animale.
Anticamente si prelevava l’intero filamento, ma questo provocava
immancabilmente la morte dell’animale. Lei riesce a praticare un taglio soltanto
sugli ultimi 5 centimetri di filamento e soltanto sugli esemplari adulti,
cogliendo il duplice obiettivo di preservare una specie a rischio e mantenere
in vita gli animali che le forniscono il materiale essenziale alla sua arte.
Il prelevamento
della fibra avviene nella tarda primavera. Chiara si immerge da sola, in apnea
nelle acque dell’isola e in posti che non rivela a nessuno. È facile immaginarla in una calda alba di
maggio, magari con indosso una tunica cerimoniale, rivolgere misteriose parole
al cielo per poi immergersi per con il suo piccolo bisturi e andare a prendere
la fibra da tessere. Una volta portato
a terra il bisso, dopo una prima pulitura, il bisso viene sottoposto ad una
lunga dissalatura e poi ad una nuova pulitura con un cardo di piccole
dimensioni. Infine la fase della
filatura a mano di cui ci ha dato prima dimostrazione. Con circa 200 immersioni
riesce ad ottenere 300 g di filamento che renderanno alla cardatura finale il
10% di fibra pulita. Con queste modeste quantità di filo le occorrono dai 2 ai
5 anni per realizzare un pezzo finito.
Lo spazio in cui
ci racconta tutto questo è un’ambiente della sua casa che ha allestito come un
piccolo “Museo del Bisso”, visto che quello comunale è chiuso e non si sa
quando e se riaprirà. Ci sono i lavori di una vita, come la cravatta
interamente di bisso intessuta per il marito e indossata il giorno delle nozze,
o arazzi con simboli della tradizione isolana come “Il leone delle donne”
intessuto dalla nonna, foto di opere esposte al Louvre, al British Museum o
date in comodato ad altri musei italiani.
L’abitato di
Sant’Antioco è molto più grande di quanto ci si possa aspettare, una cittadina
che ben assortisce antico e moderno, con un corso principale ben alberato e
ricco di attività commerciali.
Proseguendo verso
Nord, alla fine di una lunga strada circondata da vigneti che si addentra
nell’isola, c’è il paesino di Calasetta, un centro balneare, con tantissime piccole casette e un porticciolo da cui partono sia escursioni giornaliere che un traghetto per Carloforte, molto
ventoso e dove si parla un dialetto ligure come nella vicina isola di San
Pietro, la seconda dell’arcipelago del Sulcis.
L’isola di San
Pietro, che in molti chiamano Carloforte, che è invece il nome della cittadina
che sorge sottovento, è stata a lungo disabitata e venne colonizzata nel 1738 da un
numeroso gruppo di pescatori e commercianti genovesi. Essi abbandonarono l’isola tunisina di Tabarka, che avevano in concessione da oltre due secoli,
per le continue vessazioni dei vari rais della costa nord africana. Ottennero da
Carlo Emanuele III il permesso di insediarsi nell’isola detta “degli
sparvieri” e ne iniziarono la bonifica,
trasformando le paludi in saline, e fortificando l’abitato cui appunto venne
dato il nome di Carloforte (Forte di Carlo).
Oggi il paese è
un intrico di viuzze e vicoletti che si inerpicano su un leggero pendio, con un
bel porticciolo, adatto anche alle barche a vela, e alcune torri di
avvistamento e bastioni difensivi, ricco di piccole abitazioni colorate e nota
per la pesca del tonno. Molto sentita è la festa di san Pietro, il 29 giugno,
protettore di corallari e tonnarotti, le due storiche attività economiche
dell’isola. Gli abitanti
dell’isola conservano intatto il dialetto dei loro avi liguri, anzi, per la
precisione di Pegli, un quartiere del comune di Genova, che localmente è detto
tabarchino.
Il mare è parte essenziale della vita quotidiana dei carlofortini ed accedervi non è sempre facile, data la costa frastagliata ma interrotta qui e là da insenature: Cala Vinagra a nord, Cala Fico, a sud la spiaggia de “la Bobba” e “le Colonne”, due faraglioni che emergono dall’acqua e che sono diventati il simbolo dell’isola.
Il mare è parte essenziale della vita quotidiana dei carlofortini ed accedervi non è sempre facile, data la costa frastagliata ma interrotta qui e là da insenature: Cala Vinagra a nord, Cala Fico, a sud la spiaggia de “la Bobba” e “le Colonne”, due faraglioni che emergono dall’acqua e che sono diventati il simbolo dell’isola.
Sbarcando nella
vicina Portoscuso, a pochi minuti di traghetto se il mare lo consente, restano
negli occhi i colori di queste due isole bellissime e resta la malinconia di
serate al fresco passate a discutere di vele, di vento e di aria pulita.
1 commento:
Letto solo oggi. Ben scritto. Conosco bene la Sardegna. Ma avrei detto che quella zona si trova a sud ovest.
Oretta
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