Una nave si avvicina lenta al porto. Nella lunga accostata verso il fanale verde, il primo ufficiale controlla sul monitor che le vele ruotino per disporsi con la massima superfice esposta al sole che cala sull’orizzonte. Sul ponte la gru è pronta per le operazioni di scarico. Decine di container aspettano solo di essere velocemente depositati sulle banchine prima di riprendere il mare. Ora si aspetta solo il pilota per andare all’ormeggio...
Questo potrebbe essere un brano di un romanzo di fantascienza oppure potrebbe essere un futuro non troppo lontano.
Dopo il tempo dei clipper e dei mercantili a vela che hanno tracciato le rotte commerciali di tutti i mari del mondo, dopo le navi porta-containers che prima hanno esportato il consumismo nei paesi orientali e poi, per contrappasso, lo hanno riportato indietro con merci a bassissimo prezzo che hanno consumato i mercati dell'Ovest, dopo l’era delle super-petroliere con il loro prezioso e sporchissimo carico, sembra che si stia avvicinando il tempo di una nuova generazione di navi da trasporto, rispettose dell’ambiente e spinte da motori innovativi.
Come per ogni innovazione importante anche qui si prova a coniugare risparmio e difesa dell’ambiente, altrimenti lo scambio non potrebbe funzionare. In questo caso il primo impulso è stato dato dall’aumento del prezzo del barile di petrolio e, in prospettiva, da una diminuzione delle riserve mondiali e quindi il suo ulteriore aumento. Sulla leva della riduzione dei costi si aggiunge il peso del rispetto ambientale, che socialmente diventa sempre più importante, soprattutto agli occhi del consumentore occidentale.
Così, da alcuni anni in qua, c’è stato un fiorire di progetti e sperimentazioni che hanno l’obiettivo di ridurre i costi di esercizio del trasporto marittimo e al tempo stesso di ridurre le emissioni di CO2, che nel settore rappresentano il 5 per cento delle emissioni mondiali.
La nave cui ci si riferiva all’inizio è l’Aquasailor, un progetto di propusione totalmente ecologica per una nave destinata al trasporto di acqua potabile in giro per il mondo. L’innovazione in questo caso consiste nell’abbinamento dell’energia eolica con quella solare: alle vele è applicato un impianto fotovoltaico che consente la propusione in aggiunta o in alternativa al vento. Con una carena specificatamente disegnata per la doppia propulsione, arriva a ridurre i consumi di carburante fino al 50 per cento, ed è al momento la nave commerciale meno inquinante del mondo.
L'Aquasailor, dunque, usa aria e sole per portare acqua ai quattro angoli della Terra. Un fenomeno da cosmologia presocratica!
Un caso interessante è la MS Beluga SkySails, una nave portacontainer con un albero di 15 metri sulla prua cui è collegato un aquilone di 160 metri quadrati. L’aquilone è gestito da un software in grado di calcolare la rotta ottimale in base all’intensità e alla direzione del vento.
Si è calcolato che per questa via il risparmio di carburante possa arrivare fino al 35 per cento (il 20% è il consuntivo dei primi utilizzi reali) che in un anno di utilizzo a regime sfiora la cifra di 300 mila euro.
Teoricamente il sistema, almeno su alcune rotte, consentirebbe di utilizzare il motore soltanto alla partenza e all’attracco.
Dalla comparsa delle prime navi a vapore, le grandi navi a vela sono andate in disarmo e sono state ospitate solo dai musei e dai libri di storia. Ci sono stati in passato timidi tentativi di riutilizzo a fini commerciali negli anni ’70, ma le difficoltà tecniche di concepire un armo un grado di muovere migliaia di tonnellate fecero desistere anche i più convinti. Tuttavia alcuni semi, allora piantati, stanno cominciando a germogliare.
Il Dynarig, è un armo rivoluzionario che viene direttamente dagli anni settanta ed è stato utilizzato su una delle più belle navi a vela mai costruite, il Maltese Falcon varato nel 2006 dal cantiere Perini Navi. E' dotato di vele quadrangolari che richiamano alla memoria gli antichi vascelli e che sono manovrate elettricamente (si arrotolano e srotolano con un pulsante).
Le manovre vengono eseguite agendo non sulle vele ma sull’albero, che ruota su se stesso. In crociera si possono stabilmente mantenere velocità prossime ai 20 nodi (circa 40 Km/h).
E' più che plausibile che una soluzione del genere si possa adattare alle navi da crociera, magari inizialmente quelle destinate a un pubblico più esigente, visto anche il successo crescente della riproposizione di crociere su vere navi a vele quadre, come ad esempio la Signora del Mare o il Royal Clipper.
Negli anni Ottanta è stata costruita una nave come la Maruta Jaya, di ben 64 metri di lunghezza, che adotta un armo Indosail, cioè un’attrezzatura di coperta che consiste in lunghe vele rettangolari orientate e terzarolate elettricamente, e che consente di risparmiare circa il 70 per cento di carburante rispetto a una motonave delle stesse dimensioni.
Anche il Rainbow Warrior II, la goletta di Greenpeace, adotta dal 1989 lo stesso armo, superando il problema del costo e dell’ospitalità di un equipaggio numeroso come sui windjammer di un tempo, con un risparmio di carburante del 40 per cento.
Una recente riscoperta è il rotore Flettner: si tratta di un cilindro rotante ad asse verticale che produce una spinta dieci volte maggiore della forza del vento che la genera entrando nel cilindro e con una direzione perpendicolare alla sua provenienza (effetto Magnus). Insomma, un po’ come nel calcio quando si fa un tiro ad “effetto”: si colpisce la palla a destra e la traiettoria curva verso sinistra.
La E-Ship 1, che trasporta componenti per turbine eoliche nel Mare del Nord, ha due rotori a prua e due a poppa al posto delle vele. Tale disposizione in coperta non limita la capacità di carico, come accadrebbe con un armo tradizionale (alberi e vele), e garantisce una riduzione del 30 per cento dei consumi grazie anche ad un motore diesel di nuova generazione e uno scafo dalla migliore idrodinamica.
Il continuo aumento dei prezzi del petrolio e le norme sulla protezione ambientale con la previsione di multe e maggiori dazi, sta portando le compagnie armatrici a considerare con maggiore attenzione tutte le motorizzazioni alternative. Il 90 per cento delle merci viene movimentato per mare, ma l’intera organizzazione del trasporto marittimo è pervasa da un secolo di attività con un basso prezzo del combustibile e solo ora si ricomincia a considerare le possibili alternative.
L’adozione di sistemi misti nel breve periodo può portare grandi benefici e una significativa riduzione di CO2. L’uso dell’aquilone o di rig innovativi per sfruttare il vento, la sempre migliore efficienza dei pannelli solari, i nuovi sistemi di immagazzinamento dell’energia solare, sono passi in avanti per il superamento dell’energia fossile.
Tuttavia permangono problemi spesso legati all’organizzazione della produzione e ai tempi di viaggio che richiedono un drastico cambiamento. Si deve ripensare al trasporto considerando il vento e il mare come variabili da non trascurare, importanti dal punto di vista economico perchè in grado di ridurre i costi del trasporto e riprogrammare i movimenti anche in relazione alle stagioni e ai venti dominanti, proprio come si faceva fino a un secolo fa.
Anche i comportamenti individuali dovranno essere modificati, in particolare nel settore delle crociere dove gli sprechi elettrici per l’uso di utenze private dovrà essere contenuto a favore dei servizi di bordo, della strumentazione e della locomozione.
Ci andiamo avvicinando ai margini di un territorio con nuovi modi di vivere e produrre. E’ un cambiamento che assomiglia ad una rivoluzione.
E’ per questo che dobbiamo lavorarci tutti, individui e imprese.
Ogni giorno. Tutti i giorni.
MareRegatEcologiAlturaPoliticAmbienteVelaLibrItinerariViaggiStorieVentoBarcheOndeBlu
mercoledì 21 settembre 2011
giovedì 8 settembre 2011
Trivelle d'Italia
A volte succedono cose che sembra non potranno mai riguardarci da vicino.
Almeno così sembra, qui in Italia.
Ad agosto una enorme macchia di petrolio, fuoriuscito senza controllo da una piattaforma offshore della Shell, ha toccato le coste scozzesi.
A poco più di un anno dal terribile disastro della Deepwater Horizon nel golfo del Messico, di proprietà della BP, dove per oltre sei mesi miliardi di barili di petrolio sono stati riversati nelle acque tra la Florida e la Louisiana, con danni riparabili nei tempi di un’era geologica, un altro incidente ci obbliga a ripensare alla fragilità della tecnologia utilizzata per estrarre il greggio dal mare e alle conseguenze di ogni suo cedimento.
Qualcuno penserà che si tratti di vicende lontane, che sia nobile preoccuparsi per gli altri e per l’ambiente, ma che l'Italia e il petrolio non abbiano nulla in comune.
Non è così.
In Italia oggi ci sono ben 115 piattaforme offshore per l’estrazione di petrolio e gas e altre 54 piattaforme dismesse. Per la maggior parte si tratta di impianti di proprietà dell’Eni che spesso superano i 30 anni di età.
Per completare il quadro ci sono altri 25 permessi di ricerca di idrocarburi rilasciati fino al mese di maggio, che lasciano presagire la loro trasformazione in altrettanti impianti di perforazione. Secondo Legambiente sono 117 le prossime trivelle che cercano uno spazio nei nostri mari.
Attualmente la concentrazione delle piattaforme italiane interessa il Mar Adriatico, lungo le coste della Romagna e dell’Abruzzo, mentre i nuovi permessi di ricerca spaziano lungo il Canale di Sicilia e le coste orientali della Puglia, in particolare intorno alle isole Tremiti.
Nel lungo tratto di mare che va da Trapani ad Agrigento e fino a Ragusa sono numerose le società che si preparano alla trivellazione. Accanto ai colossi del settore (BP e Shell, ancora loro) ci sono anche alcune società (Northern Petroleum, Audax Energy, Transunion Petroleum Italia) dalla opaca composizione societaria e con un basso capitale sociale che non sembrano offrire alcuna garanzia nè dal punto di vista finanziario nè dal punto di vista tecnico, e non si capisce come e perchè siano stati concessi loro i permessi di ricerca.
Con timore e attenzione si guarda all’attività della Atwood Eagle, la trivella che staziona non lontano da Pantelleria e che pare abbia ripreso la sua attività, minacciando la bellezza e la purezza di un’isola che con fatica cerca di far sentire la sua voce a un governo sempre più sordo. Si tratterebbe di una perforazione con tanti rischi: il fondo è molto distante, circa 1700 metri, elemento che aumenta il rischio di incidente; la zona è in acque prossime al Golfo della Sirte, area di forti tensioni politiche; ci si trova al centro del Mediterraneo, un mare chiuso e con un ricambio lentissimo e che sebbene rappresenti solo l’uno per cento della superficie marina mondiale è un’area con notevole varietà biologica e con una forte presenza umana.
Purtroppo mancano norme, trattati e convenzioni internazionali che mettano il nostro mare al riparo dalla forza distruttiva degli speculatori. Oggi le nostre leggi vietano trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa, limite largamente insufficiente a metterci al riparo dalla devastazione di una marea nera.
In Puglia, a partire da ottobre, dovrebbero iniziare i sondaggi dei fondali con l’ Air Gun, un macchinario che produce violente esplosioni di aria compressa sui fondali e permette di dedurre la composizione del sottosuolo sulla base delle onde riflesse. Questa pratica è risultata ovunque estremamente dannosa per il pescato, producendone una diminuzione fino al 70% in un raggio di 40 miglia, ma soprattutto è il primo passo per l’installazione di una piattaforma petrolifera che, nel migliore dei casi, provocherà un inesorabile decadimento dell’ecosistema marino legato alle fisiologiche perdite di petrolio e sostanze inquinanti.
Perchè sta succedendo tutto questo?
L’Italia si sta trasformando in un paese esportatore di petrolio?
Diventeremo tutti ricchi come i pascià delle fiabe?
In reatà la qualità del greggio italiano non è delle migliori, anzi è molto bassa, ed anche la quantità non è eccessiva. Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico le riserve italiane stimate sono pari a 187 milioni di tonnellate che, in base ai nostri consumi attuali, si esaurirebbero in due anni e mezzo.
Si tratta dunque di una quantità molto modesta.
E allora quale sarebbe il vantaggio?
E’ una questione di royalties, vale a dire l’ammontare che lo Stato trattiene sul prezzo di vendita del greggio. Al momento la legislazione italiana prevede royalties al 4% e una franchigia fino a 50.000 tonnellate (300.000 barili l’anno). Sotto questo limite non si paga nemmeno il 4% e, purtroppo, non esiste alcuna restrizione neanche per il rimpatrio dei profitti.
Questa combinazione è considerata dalle compagnie petrolifere una delle più convenienti del mondo e per comprenderlo basti guardare agli altri paesi: ad esempio la Libia trattiene l’85%, la Russia l’80% e l’Alaska il 60%.
Facendo alcuni semplici calcoli, usando il 20% delle riserve stimate (40 milioni di tonnellate o 250 milioni di barili) e applicando il livello di royalties della Russia (80%) e senza alcuna franchigia, in dieci anni si potrebbe ridurre il debito pubblico di almeno il 10% e tutto a carico delle compagnie petrolifere.
Se al contrario queste misure dovessero dissuadere i petrolieri dall’attività di estrazione in Italia, allora sarebbe ancora meglio: zero inquinamento e un mare pulito da lasciare ai nostri figli.
Invece la corsa all'oro nero continua indisturbata.
Almeno così sembra, qui in Italia.
Ad agosto una enorme macchia di petrolio, fuoriuscito senza controllo da una piattaforma offshore della Shell, ha toccato le coste scozzesi.
A poco più di un anno dal terribile disastro della Deepwater Horizon nel golfo del Messico, di proprietà della BP, dove per oltre sei mesi miliardi di barili di petrolio sono stati riversati nelle acque tra la Florida e la Louisiana, con danni riparabili nei tempi di un’era geologica, un altro incidente ci obbliga a ripensare alla fragilità della tecnologia utilizzata per estrarre il greggio dal mare e alle conseguenze di ogni suo cedimento.
Qualcuno penserà che si tratti di vicende lontane, che sia nobile preoccuparsi per gli altri e per l’ambiente, ma che l'Italia e il petrolio non abbiano nulla in comune.
Non è così.
In Italia oggi ci sono ben 115 piattaforme offshore per l’estrazione di petrolio e gas e altre 54 piattaforme dismesse. Per la maggior parte si tratta di impianti di proprietà dell’Eni che spesso superano i 30 anni di età.
Per completare il quadro ci sono altri 25 permessi di ricerca di idrocarburi rilasciati fino al mese di maggio, che lasciano presagire la loro trasformazione in altrettanti impianti di perforazione. Secondo Legambiente sono 117 le prossime trivelle che cercano uno spazio nei nostri mari.
Attualmente la concentrazione delle piattaforme italiane interessa il Mar Adriatico, lungo le coste della Romagna e dell’Abruzzo, mentre i nuovi permessi di ricerca spaziano lungo il Canale di Sicilia e le coste orientali della Puglia, in particolare intorno alle isole Tremiti.
Nel lungo tratto di mare che va da Trapani ad Agrigento e fino a Ragusa sono numerose le società che si preparano alla trivellazione. Accanto ai colossi del settore (BP e Shell, ancora loro) ci sono anche alcune società (Northern Petroleum, Audax Energy, Transunion Petroleum Italia) dalla opaca composizione societaria e con un basso capitale sociale che non sembrano offrire alcuna garanzia nè dal punto di vista finanziario nè dal punto di vista tecnico, e non si capisce come e perchè siano stati concessi loro i permessi di ricerca.
Con timore e attenzione si guarda all’attività della Atwood Eagle, la trivella che staziona non lontano da Pantelleria e che pare abbia ripreso la sua attività, minacciando la bellezza e la purezza di un’isola che con fatica cerca di far sentire la sua voce a un governo sempre più sordo. Si tratterebbe di una perforazione con tanti rischi: il fondo è molto distante, circa 1700 metri, elemento che aumenta il rischio di incidente; la zona è in acque prossime al Golfo della Sirte, area di forti tensioni politiche; ci si trova al centro del Mediterraneo, un mare chiuso e con un ricambio lentissimo e che sebbene rappresenti solo l’uno per cento della superficie marina mondiale è un’area con notevole varietà biologica e con una forte presenza umana.
Purtroppo mancano norme, trattati e convenzioni internazionali che mettano il nostro mare al riparo dalla forza distruttiva degli speculatori. Oggi le nostre leggi vietano trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa, limite largamente insufficiente a metterci al riparo dalla devastazione di una marea nera.
In Puglia, a partire da ottobre, dovrebbero iniziare i sondaggi dei fondali con l’ Air Gun, un macchinario che produce violente esplosioni di aria compressa sui fondali e permette di dedurre la composizione del sottosuolo sulla base delle onde riflesse. Questa pratica è risultata ovunque estremamente dannosa per il pescato, producendone una diminuzione fino al 70% in un raggio di 40 miglia, ma soprattutto è il primo passo per l’installazione di una piattaforma petrolifera che, nel migliore dei casi, provocherà un inesorabile decadimento dell’ecosistema marino legato alle fisiologiche perdite di petrolio e sostanze inquinanti.
Perchè sta succedendo tutto questo?
L’Italia si sta trasformando in un paese esportatore di petrolio?
Diventeremo tutti ricchi come i pascià delle fiabe?
In reatà la qualità del greggio italiano non è delle migliori, anzi è molto bassa, ed anche la quantità non è eccessiva. Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico le riserve italiane stimate sono pari a 187 milioni di tonnellate che, in base ai nostri consumi attuali, si esaurirebbero in due anni e mezzo.
Si tratta dunque di una quantità molto modesta.
E allora quale sarebbe il vantaggio?
E’ una questione di royalties, vale a dire l’ammontare che lo Stato trattiene sul prezzo di vendita del greggio. Al momento la legislazione italiana prevede royalties al 4% e una franchigia fino a 50.000 tonnellate (300.000 barili l’anno). Sotto questo limite non si paga nemmeno il 4% e, purtroppo, non esiste alcuna restrizione neanche per il rimpatrio dei profitti.
Questa combinazione è considerata dalle compagnie petrolifere una delle più convenienti del mondo e per comprenderlo basti guardare agli altri paesi: ad esempio la Libia trattiene l’85%, la Russia l’80% e l’Alaska il 60%.
Facendo alcuni semplici calcoli, usando il 20% delle riserve stimate (40 milioni di tonnellate o 250 milioni di barili) e applicando il livello di royalties della Russia (80%) e senza alcuna franchigia, in dieci anni si potrebbe ridurre il debito pubblico di almeno il 10% e tutto a carico delle compagnie petrolifere.
Se al contrario queste misure dovessero dissuadere i petrolieri dall’attività di estrazione in Italia, allora sarebbe ancora meglio: zero inquinamento e un mare pulito da lasciare ai nostri figli.
Invece la corsa all'oro nero continua indisturbata.
Iscriviti a:
Post (Atom)
Una semi-isola, il filo dell’acqua e l’isola dei genovesi
C’è un angolo di Sardegna che conserva un carattere e una personalità fuori dall’ordinario. Lontano dagli usuali giri turistici, lontano...
-
Baia delle Zagare nel Parco Nazionale del Gargano L'albergo sorge sulla costa garganica all'interno del Parco Nazionale del Gar...
-
Lido Bettarini - Vele bianche E’ una bella giornata, il mare è calmo e il vento si è steso per bene, la borsa con il necessario è p...
-
Per chi proviene da Napoli, prima di arrivare al porto di Pozzuoli, se si alza lo sguardo, spicca la sagoma dell’Accademia Aeronautica, i...