A volte succedono cose che sembra non potranno mai riguardarci da vicino.
Almeno così sembra, qui in Italia.
Ad agosto una enorme macchia di petrolio, fuoriuscito senza controllo da una piattaforma offshore della Shell, ha toccato le coste scozzesi.
A poco più di un anno dal terribile disastro della Deepwater Horizon nel golfo del Messico, di proprietà della BP, dove per oltre sei mesi miliardi di barili di petrolio sono stati riversati nelle acque tra la Florida e la Louisiana, con danni riparabili nei tempi di un’era geologica, un altro incidente ci obbliga a ripensare alla fragilità della tecnologia utilizzata per estrarre il greggio dal mare e alle conseguenze di ogni suo cedimento.
Qualcuno penserà che si tratti di vicende lontane, che sia nobile preoccuparsi per gli altri e per l’ambiente, ma che l'Italia e il petrolio non abbiano nulla in comune.
Non è così.
In Italia oggi ci sono ben 115 piattaforme offshore per l’estrazione di petrolio e gas e altre 54 piattaforme dismesse. Per la maggior parte si tratta di impianti di proprietà dell’Eni che spesso superano i 30 anni di età.
Per completare il quadro ci sono altri 25 permessi di ricerca di idrocarburi rilasciati fino al mese di maggio, che lasciano presagire la loro trasformazione in altrettanti impianti di perforazione. Secondo Legambiente sono 117 le prossime trivelle che cercano uno spazio nei nostri mari.
Attualmente la concentrazione delle piattaforme italiane interessa il Mar Adriatico, lungo le coste della Romagna e dell’Abruzzo, mentre i nuovi permessi di ricerca spaziano lungo il Canale di Sicilia e le coste orientali della Puglia, in particolare intorno alle isole Tremiti.
Nel lungo tratto di mare che va da Trapani ad Agrigento e fino a Ragusa sono numerose le società che si preparano alla trivellazione. Accanto ai colossi del settore (BP e Shell, ancora loro) ci sono anche alcune società (Northern Petroleum, Audax Energy, Transunion Petroleum Italia) dalla opaca composizione societaria e con un basso capitale sociale che non sembrano offrire alcuna garanzia nè dal punto di vista finanziario nè dal punto di vista tecnico, e non si capisce come e perchè siano stati concessi loro i permessi di ricerca.
Con timore e attenzione si guarda all’attività della Atwood Eagle, la trivella che staziona non lontano da Pantelleria e che pare abbia ripreso la sua attività, minacciando la bellezza e la purezza di un’isola che con fatica cerca di far sentire la sua voce a un governo sempre più sordo. Si tratterebbe di una perforazione con tanti rischi: il fondo è molto distante, circa 1700 metri, elemento che aumenta il rischio di incidente; la zona è in acque prossime al Golfo della Sirte, area di forti tensioni politiche; ci si trova al centro del Mediterraneo, un mare chiuso e con un ricambio lentissimo e che sebbene rappresenti solo l’uno per cento della superficie marina mondiale è un’area con notevole varietà biologica e con una forte presenza umana.
Purtroppo mancano norme, trattati e convenzioni internazionali che mettano il nostro mare al riparo dalla forza distruttiva degli speculatori. Oggi le nostre leggi vietano trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa, limite largamente insufficiente a metterci al riparo dalla devastazione di una marea nera.
In Puglia, a partire da ottobre, dovrebbero iniziare i sondaggi dei fondali con l’ Air Gun, un macchinario che produce violente esplosioni di aria compressa sui fondali e permette di dedurre la composizione del sottosuolo sulla base delle onde riflesse. Questa pratica è risultata ovunque estremamente dannosa per il pescato, producendone una diminuzione fino al 70% in un raggio di 40 miglia, ma soprattutto è il primo passo per l’installazione di una piattaforma petrolifera che, nel migliore dei casi, provocherà un inesorabile decadimento dell’ecosistema marino legato alle fisiologiche perdite di petrolio e sostanze inquinanti.
Perchè sta succedendo tutto questo?
L’Italia si sta trasformando in un paese esportatore di petrolio?
Diventeremo tutti ricchi come i pascià delle fiabe?
In reatà la qualità del greggio italiano non è delle migliori, anzi è molto bassa, ed anche la quantità non è eccessiva. Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico le riserve italiane stimate sono pari a 187 milioni di tonnellate che, in base ai nostri consumi attuali, si esaurirebbero in due anni e mezzo.
Si tratta dunque di una quantità molto modesta.
E allora quale sarebbe il vantaggio?
E’ una questione di royalties, vale a dire l’ammontare che lo Stato trattiene sul prezzo di vendita del greggio. Al momento la legislazione italiana prevede royalties al 4% e una franchigia fino a 50.000 tonnellate (300.000 barili l’anno). Sotto questo limite non si paga nemmeno il 4% e, purtroppo, non esiste alcuna restrizione neanche per il rimpatrio dei profitti.
Questa combinazione è considerata dalle compagnie petrolifere una delle più convenienti del mondo e per comprenderlo basti guardare agli altri paesi: ad esempio la Libia trattiene l’85%, la Russia l’80% e l’Alaska il 60%.
Facendo alcuni semplici calcoli, usando il 20% delle riserve stimate (40 milioni di tonnellate o 250 milioni di barili) e applicando il livello di royalties della Russia (80%) e senza alcuna franchigia, in dieci anni si potrebbe ridurre il debito pubblico di almeno il 10% e tutto a carico delle compagnie petrolifere.
Se al contrario queste misure dovessero dissuadere i petrolieri dall’attività di estrazione in Italia, allora sarebbe ancora meglio: zero inquinamento e un mare pulito da lasciare ai nostri figli.
Invece la corsa all'oro nero continua indisturbata.
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giovedì 8 settembre 2011
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