mercoledì 15 giugno 2011

Un mare di plastica


C’è un grande continente inesplorato al centro dell’oceano Pacifco. E’ largo almeno un milione di chilometri quadrati ma non è segnato su nessuna carta nautica.
E’ il Pacific Garbage Vortex che si trova a metà strada tra le Hawaii e le coste del nord America, dove le calme equatoriali e le correnti che si muovono in senso orario hanno formato un gigantesco vortice che raccoglie i rifiuti abbandonati in mare delle Americhe e dell’Asia, miliardi e miliardi di rottami di plastica, reti, attrezzatura da pesca, scarti della civiltà del consumo in cui viviamo.
Questa spazzatura galleggia appena sotto il pelo dell’acqua e nei primi 4-5 metri. Molti frammenti entrano in simbiosi con la flora e la fauna e lentamente si depositano sul fondo, altri vengono inghiottiti da pesci e uccelli che li scambiamo per cibo. Infatti la plastica si fotodegrada, spezzettandosi in particelle sempre più piccole che assomigliano al plancton e che quindi diventano cibo per i pesci, meduse e tartarughe causandone spesso la morte per soffocamento o per blocco intestinale. Questi animali, risalendo lungo la catena alimentare, finiscono con l’essere cibo anche per l’uomo con effetti sulla salute ancora da determinare.
Sebbene già alla fine degli anni Ottanta alcuni studi facessero preconizzare l’esistenza di un simile mostruso fenomeno, l’effettiva scoperta di questo orribile scempio è stata del tutto casuale.
Charles Moore, ricercatore californiano completamente dedito al mare e alla lotta contro l’inquinamento, nel 1997 era a bordo di Arguita, il suo catamarano, di ritorno da una regata alle Hawaii. Non essendo di natura particolarmente competitiva, sceglie una rotta più settentrionale rispetto alle altre barche e si imbatte in quest’enorme ammasso di spazzatura galleggiante, impiegando più di una settimana per attraversarlo. Preleva insieme al suo equipaggio alcuni campioni per analizzarli al suo rientro e ne traccia una prima localizzazione. Da subito si ipotizza che l’accumulo si sia formato a partire dagli anni cinquanta come conseguenza della corrente marina dell’area dotata di un movimento orario a spirale (North Pacific Subtropicali Gyre) che consente ai rifiuti galleggianti di aggregarsi.
Alcuni anni dopo, all’incirca nel 2006, il ricco ereditiero ambientalista David de Rotschild legge della scoperta e degli studi di Capitan Moore e inizia a progettare una spedizione per dare risonanza internazionale al problema. Inizia così l’avventura del Plastiki, che prende effettivamente il mare nel 2010, dopo una lunga gestazione progettuale e costruttuva.
Il Plastiki è un catamarano costruito utilizzando 12.000 bottiglie di plastica riciclata riempite con ghiaccio secco che, riscaldato, si trasforma in diossido di carbonio aumentando la pressione interna e rendendole rigide. Le bottiglie sono fissate ad una struttura di plastica biodegradabile (srPet) sufficientemente rigida da sopportare le sollecitazioni del vento e del mare in un viaggio di quasi 8500 miglia da San Francisco a Sidney. La barca è stata concepita per essere autosufficiente e dotata di energia pulita, attraverso la combinazione di quattro distinte fonti: una dinamo collegata ad una cyclette fissata in coperta, un generatore eolico, pannelli solari calpestabili e un motore alimentato da carburante biodiesel. Per approfondire si può consultare direttamente il sito www.theplastiki.com.
L’effetto più interessante della spedizione, che altrimenti potrebbe essere degradata al rango di una gita di fighetti pieni di soldi e basta,è l’essere diventato un potente catalizzatore di iniziative legate al riciclaggio e alla conoscenza del problema che altrimenti sarebbe rimasto confinato sulle pubblicazioni scientifiche.
Anche nel Tirreno esiste un’isola di spazzatura, visto che siamo abituati a non farci mai mancare niente. Nel tratto di mare tra l’arcipelago toscano, la Corsica e la Liguria le correnti hanno determinato un affastellamento di rifiuti, soprattutto presso l’isola d’Elba, dove sono stati rinvenuti 892.000 frammenti di plastica per chilometro quadrato contro la media di 115.000 del resto del Mediterraneo (dati Ifremer/ Expedition Med). E’ facile immaginare che si tratti di rifiuti sversati in mare dai fiumi della riviera ligure e toscana e dalle acque non depurate delle città costiere. Di certo una qualche colpa è da ascriversi anche all’antropizzazione eccessiva che si crea lungo quelle coste nel periodo estivo.
Insomma, è colpa nostra!
La scoperta del vortice del Pacifico e di tanti altri ammassi in giro nei mari del mondo è l’ennesima prova della necessità di riconsiderare il modello di sviluppo occidentale basato su una crescita senza limiti e sullo sfruttamento intensivo di tutte le risorse naturali, come il petrolio e la plastica che da esso ne deriva. La crescita esponenziale della produzione mal si concilia con la possibilità di assorbirne gli effetti sul pianeta. Un percorso virtuoso deve vederci impegnati con lo stesso zelo per consegnare un mondo più sano ai nostri figli.
Non sono un sognatore, anzi, ma quello che ho visto nell’acqua dell’Atlantico, a più di mille miglia dalla costa mi spinge a dire che dobbiamo almeno provarci.
Il mare è di tutti ma la responsabilità di ripulirlo e proteggerlo è di nessuno.
Purtroppo.
Mi riesce difficile immaginare che uno stato o un’organizzazione internazionale decidano all’improvviso di ripulire il mare e non saprei nemmeno dire se esista una tecnologia in grado di farlo, ma credo che sia importante parlarne.
Solo così si può tentare di limitare il fenomeno.
Solo così si può iniziare a formare una coscienza ambientale che ci aiuti a non far morire il nostro futuro.
Dobbiamo insistere.
Ogni giorno.
Tutti i giorni.


Fonti: www.effettoterra.org, Il Giornale della Vela, Wikipedia

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